IL PODIO AL GIRO D’ITALIA E I PIAZZAMENTI A SANREMO E AL LOMBARDIA DI GIUSEPPE AZZINI

articolo di Nicola Pucci

Oggi ci occupiamo del ciclismo dei pionieri, quello fatto di strade sterrate, fatiche notturne e piazzamenti incerti, che rimanda ai racconti dei nostri antenati e a qualche ritaglio di giornale d’epoca. Giuseppe Azzini, ad esempio, che seppe costruirsi un curriculum, seppur quasi integralmente autarchico, di indubbio valore. Senza tuttavia l’avvallo del successo che lo elevasse al rango di fuoriclasse del pedale.

Nato a Gazzuolo, nel mantovano, il 26 marzo 1891, Giuseppe è il più giovane della purtroppo tragica dinastia degli Azzini (come i fratelli Ernesto e Luigi, perirà pure lui troppo giovane, a soli 34 anni, per tisi), e si mette in luce già tra i dilettanti, al punto di conquistare, oltre al prestigioso Giro dell’Umbria, anche il Campionato Italiano, nel 1911.

A causa dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, nella quale Azzini combatte sul fronte italiano, e del suo carattere generoso, nel panorama del ciclismo italiano Giuseppe verrà ricordato soltanto per qualche sporadica vittoria e, soprattutto, molti piazzamenti, ma è ugualmente capace di dimostrare una levatura tra le migliori del suo tempo. Infatti, un mese dopo la stupenda vittoria nella Milano-Torino conquistata battendo in volata Carlo Durando, è protagonista di un grande Giro d’Italia nel 1913, l’ultimo con la classifica determinata dai punti e non dai tempi.

E’ quella un’edizione della “corsa non ancora rosa” che Azzini, al soldo della OTAV, avrebbe sicuramente vinto, se non fosse incappato in un errore che riassume come meglio non si potrebbe il corso eroico del ciclismo di quell’epoca. Dopo cinque tappe corse da grande campione – secondo a Roma, primo a Salerno e a Bari, di nuovo secondo a Campobasso e ad Ascoli Piceno – ed il conseguente primo posto in classifica generale conquistato, il mantovano si concede una giornata di relativo riposo nella frazione che si conclude a Rovigo, fermandosi esausto in un cascinale a rifornirsi e a dormire un po’. Ma quel po’, si dipana per alcune ore, troppe perché i 413 chilometri di quella tappa gli consentano di recuperare dalle ultimissime posizioni. E così nella serata rodigina si trova a cedere il primo posto a Carlo Oriani, che poi vince il Giro, ed il secondo ad Eberardo Pavesi, ed a Milano, due giorni dopo, Azzini conclude solamente sul terzo gradino del podio, dietro ai due illustri campioni.

Anche nell’edizione del Giro d’Italia del 1914, quella tremenda con soli otto atleti classificati, Azzini recita da protagonista. Vince infatti le tappe di Avellino e Bari, dove conquista il primato nella generale, ma un paio di giorni dopo è costretto al ritiro.

Nel frattempo Azzini, passato alla Bianchi, trova modo di terminare secondo al Giro di Lombardia del 1914, battuto in volata dal compagno di squadra Lauro Bordin, per poi, appunto, dopo un quinto posto alla Milano-Sanremo del 1915, doversi fermare per le esigenze della guerra.

Dopo il conflitto, il ruolo di Giuseppe cambia, liberando la sua indole generosa e diventando una spalla di grande valore. Dal fisico imponente, il suo essere gran faticatore e valido passista – come dimostrano i 2 successi nel Giro della Provincia di Milano, nel 1920 con Tano Belloni e 1921 con Costante Girardengo – trova la simpatia e la riconoscenza dei grandi campioni (lo stesso Girardengo stravede per lui), ed il suo curriculum si infarcisce di piazzamenti.

Alla Milano-Sanremo, dove spesso è tra i corridori maggiormente animati di buone intenzioni, è quarto nel 1919 e nel 1920, e terzo nel 1921 e 1924, in entrambe queste due occasioni superato proprio da Girardengo, che lo aveva voluto con se prima alla Stucchi e poi alla Maino. E se al Giro d’Italia colleziona quattro ritiri consecutivi tra il 1919 e il 1922 (quando era, provvisoriamente, sesto, ottavo e quarto in classifica generale, mentre nel 1922 era giunto secondo nella tappa di Portorose), ancora al Giro di Lombardia, dopo il sesto posto del 1918 e il quarto del 1920, ha il temperamento e l’audacia necessaria per terminare secondo nel 1922, inesorabilmente alle spalle di Girardengo che lo batte in volata.

Afflitto dalla tisi (dovuta probabilmente alla troppa polvere respirata durante la carriera), Azzini si spenge prematuramente, come i suoi fratelli, all’età di 34 anni, l’11 novembre 1925. Lasciando il ricordo di un corridore tenace e di classe, a cui è mancato l’acuto che lo introducesse tra gli immortali del ciclismo.

IL “BIENNIO DI GLORIA” DEL WEST HAM A WEMBLEY, CON VISTA SUL MONDIALE

Il West Ham festeggia il trionfo in Coppa delle Coppe – da thesefootballtimes.co

articolo di Giovanni Manenti

Ancorché fondato nel 1895, il West Ham – club londinese con sede nel quartiere di Stratford del distretto di Newham – vive il suo primo periodo di sufficiente notorietà nel corso degli anni ’20 del XX secolo, allorché, dopo aver ottenuto la promozione in First Division al termine della stagione 1922-’23 – che lo vede altresì sconfitto 0-2 dal Bolton nella finale di FA Cup –, mantiene la categoria per quasi un decennio, per poi stazionare stabilmente in Second Division negli anni a cavallo del secondo conflitto mondiale.

Le cose cambiano in meglio verso la fine degli anni ’50, riuscendo a risalire nell’elite del calcio inglese a fine torneo 1957-’58, vinto con 57 punti ed una sola lunghezza di margine sul Blackburn, il che consente agli “Hammers” sia di mantenersi nella massima serie inglese per ben 20 stagioni che di conquistare fama a livello nazionale ed internazionale.

Il tutto nasce, come molto spesso accade in questi casi, grazie all’approdo sulla panchina londinese del tecnico Ron Greenwood, che ne assume la guida a fine stagione 1961 per un sodalizio destinato a durare per ben 13 anni, per poi diventarne il general manager per un triennio prima di essere scelto quale commissario tecnico della Nazionale inglese.

Oddio, un allenatore, pur bravo che sia, da solo non sarebbe bastato se, per una fortunata congiunzione astrale, il settore giovanile non avesse sfornato un trio di fuoriclasse destinati a diventare “leggende” per il club, ovvero Robert “Bobby” Moore (nato il 12 aprile 1941), Geoff Hurst (nato l’8 dicembre 1941) e Martin Peters, nato l’8 novembre 1943.

Con Moore ad esordire in prima squadra ad inizio settembre 1958, Hurst a fare altrettanto a fine febbraio 1960 e Peters a dover attendere sino al 20 aprile 1962 per vestirne i colori, ecco il club a vivere la sua prima “stagione di gloria” nel 1964, che lo vede, a dispetto di un’anonima 14esima posizione in campionato, ben comportarsi nelle due coppe nazionali.

Dapprima, difatti, raggiunge le semifinali della League Cup, dopo aver superato, in ordine cronologico, Leyton Orient (2-1), Aston Villa (2-0), Swindon Town (3-3 e 4-1 al replay) e Workington (6-0), solo per cedere (3-4 e 0-2) contro il Leicester che poi si aggiudica il trofeo avendo la meglio sullo Stoke City in finale.

Molto più proficuo il cammino nella più antica e prestigiosa manifestazione, ovviamente la FA Cup, che vede il club londinese esordire ad inizio gennaio 1964 per sbarazzarsi (3-0, reti di Brabrook, Hurst e Sissons) del Charlton, per poi trovarsi di fronte ancora il Leyton Orient, eliminato 3-0 al replay (doppietta di Hurst ed acuto di Byrne) dopo l’1-1 del match di andata, e quindi superare 3-1 (con gli stessi marcatori) lo Swindon in trasferta, così da accedere ai quarti di finale.

Abbinato al Burnley, il West Ham riesce a venire a capo di una gara non semplice, risolta a proprio favore per 3-2, con stavolta toccare a Johnny Byrne il ruolo di protagonista, siglando una doppietta che vale l’accesso alle semifinali unitamente a Preston, Swansea e Manchester United.

Inutile dire quale sia la formazione da evitare – e non certo per il fatto che Preston e Swansea militino in Second Division, con i gallesi ad aver compiuto nel turno precedente l’impresa di andare a vincere 2-1 ad Anfield –, in quanto il Manchester United, oltre ad essere detentore del trofeo, sta costruendo la squadra destinata a dominare la seconda metà degli anni ’60.

Non è però di questo avviso la “dea bendata” e così, mentre il Preston prevale in rimonta 2-1 sullo Swansea nella semifinale disputata sul neutro del “Villa Park” di Birmingham, la sfida che si svolge ad “Hillsborough” a Sheffield si decide a cavallo dell’ora di gioco, grazie alla doppietta in 6’ (56’ e 62’) messa a segno dal centrocampista Ronald Boyce, con il tentativo di rientrare in partita operato da Denis Law per i “Red Devils”, immediatamente annullato dal centro di Hurst per il 3-1 definitivo che schiude per la seconda volta nella loro storia le porte di Wembley agli “Hammers” che, curiosamente, erano stati protagonisti anche nella prima finale qui giocata, il 28 aprile 1923 alla presenza del Re Giorgio V.

Ancorché i rivali del Preston militino in Second Division, questi si presentano all’atto conclusivo il 2 maggio 1964 dopo una buona stagione che li ha visti sfiorare la promozione, classificandosi terzi a cinque lunghezze (61 punti a 56) dal Sunderland salito in First Division assieme al Leeds, ed un’eventuale affermazione in FA Cup compenserebbe ampiamente la delusione.

E, che non sia una passeggiata, i ragazzi di Greenwood se ne accorgono ben presto, complice la rete del vantaggio siglata dopo appena 10’ dall’ala sinistra Doug Holden, che deposita oltre la linea una palla sfuggita all’estremo difensore Jim Standen su di una conclusione dal limite, pur se Sissons provveda immediatamente a riequilibrare le sorti dell’incontro con un chirurgico diagonale sinistro poco dentro l’area di rigore.

Guai però a credere che la rete subita abbia spento gli ardori del Preston che, anzi, si riporta in vantaggio al 40’ con il centravanti scozzese Alex Dawson che devia imperiosamente di testa alle spalle di Standen un corner calciato dalla destra, così che le due squadre guadagnano gli spogliatoi con la formazione del Lancashire inaspettatamente in vantaggio per 2-1.

Anche se non sarebbe il primo caso, risale peraltro addirittura al 1931 l’ultima affermazione di un club al di fuori della First Division, ed in ogni caso a “scacciare l’incubo” per i londinesi provvede anche un pizzico di buona sorte, in quanto il colpo di testa di Hurst al 52’ sbatte sotto la parte inferiore della traversa per poi carambolare sulla schiena dell’estremo difensore irlandese Alan Kelly prima di oltrepassare la linea, così da rimettere tutto in gioco.

I ventidue in campo peraltro non si risparmiano, creando occasioni favorevoli da una parte e dall’altra, ed è così che, mentre tutti si preparano ad assistere ai tempi supplementari, un traversone dalla destra viene raccolto di testa in corsa da Boyce che sigla la rete più importante della sua carriera, tale da consentire al proprio capitano Bobby Moore di sollevare al cielo di Londra il primo trofeo nella storia del club.

Ma, si sa, “l’appetito vien mangiando” ed ecco quindi il West Ham presentarsi ai nastri di partenza dell’edizione 1964-’65 della Coppa delle Coppe con la speranza di emulare l’impresa compiuta due anni prima dai rivali cittadini del Tottenham – primo club inglese in assoluto ad aggiudicarsi una manifestazione internazionale – allorché si erano imposti per 5-1 sull’Atletico Madrid nella finale di Rotterdam.

Le più accreditate avversarie sono i detentori del trofeo dello Sporting Lisbona, unitamente ai vincitori della DFB-Pokal tedesca Monaco 1860 – che all’epoca primeggiava rispetto ai “cugini” bavaresi del Bayern –, agli spagnoli del Real Saragozza ed agli italiani del Torino, seppur il livello dei partecipanti non appaia, in effetti, di primissimo piano.

E poi, vi è pur sempre l’incognita costituita dalle formazioni dell’Europa dell’est, anche se al sorteggio del primo turno ai londinesi toccano i belgi del Gent, ostacolo non insormontabile ma neppure da prendere alla leggera, prova ne sia che, dopo il successo per 1-0 (rete di Boyce) all’andata nelle Fiandre, al ritorno ad “Upton Park” le cose si mettono male per un’autorete di Peters poco dopo la mezzora di gioco, alla quale rimedia Byrne già prima dell’intervallo.

Evitata così un’ingloriosa eliminazione al primo turno, ecco che agli ottavi a Bobby Moore & Co. si presenta lo “spettro orientale” costituito dai cecoslovacchi dello Sparta Praga, per eliminare i quali, dopo il convincente 2-0 (con John Bond e Sealey a segn…) dell’andata, è necessaria una rete di Sissons prima dello scoccare del quarto d’ora di gioco nel ritorno nella capitale cecoslovacca, così da rendere vana la doppietta siglata da Ivan Mraz nel finale di gara.

Secondo turno che vede cadere a sorpresa lo Sporting Lisbona, eliminato (1-2 e 0-0) dai gallesi del Cardiff, così come esce di scena l’altra lusitana Porto, eliminato (0-1 ed 1-1) dal Monaco 1860, mentre vanno avanti sia il Torino (1-0 e 5-0 sui finlandesi dell’Haka) che il Saragozza, impostosi (2-2 e 2-1 con doppietta di Lapetra) sugli scozzesi del Dundee.

Si torna quindi in campo a marzo 1965, ad eccezione della sfida fra Cardiff e Saragozza che va in scena il 20 gennaio ed il 3 febbraio, il cui esito arride agli aragonesi che, dopo essere stati bloccati sul 2-2 interno all’andata, staccano il pass per le semifinali grazie all’unica rete di Canario che decide il match di ritorno.

Decisive le vittorie in trasferta anche per il Torino che, dopo l’1-1 interno al “Comunale(botta e risposta tra Simoni e Lanza a cavallo dell’intervallo), si impone 2-1 al ritorno sul campo della Dinamo Zagabria, con protagonisti Poletti ed Hitchens per i granata, così come il Monaco 1860 chiude il discorso qualificazione con il netto 4-0 con cui sbanca il terreno del Legia Varsavia, per poi amministrare il largo vantaggio con lo 0-0 in Baviera.

Resta il West Ham, cui il sorteggio ha dato una mano abbinandolo ai non certo trascendentali svizzeri del Losanna anche se, dopo l’affermazione per 2-1 in terra elvetica, il ritorno a Londra è tutt’altro che una formalità, visto l’iniziale vantaggio ospite con Kerkhoffs, ribaltato nel finale della prima frazione di gioco da un’autorete di Tacchella e da un centro di Brian Dear che – dopo altri “botta e risposta” a firma Hertig ed Eschmann da una parte e Peters dall’altra – mette la parola fine alla contesa con il punto del definitivo 4-3 ad 1’ dal termine.

Anche se non formazioni di “primissima fascia” nei rispettivi paesi, resta pur sempre il fatto che a qualificarsi per le semifinali sono le rappresentanti di Germania, Inghilterra, Italia e Spagna – vale a dire i primi quattro campionati europei per importanza –, ed, in questi casi, un abbinamento vale l’altro, anche se dall’urna escono le sfide West Ham-Saragozza e Torino-Monaco 1860.

Quest’ultima è la più equilibrata, in quanto i granata, che pensavano di aver ipotecato la finale con il 2-0 dell’andata (Rosato ed autorete di Luttrop) al “Comunale”, si ritrovano sotto 0-3 ad inizio ripresa (doppietta di Luttrop ed acuto di Heiss) in Baviera, prima che Lancioni sigli il punto dell’1-3 che significa spareggio, che si disputa sul campo neutro di Zurigo e che i tedeschi si aggiudicano per 2-0, con ancora Luttrop a segno.

Sicuramente non agevole l’accesso all’atto conclusivo anche per il West Ham che, portatosi sul 2-0 (reti di Dear e Byrne) dopo poco più di 20’ del match di andata, vede Canario dimezzare lo svantaggio in vista dell’incontro di ritorno a “La Romareda”, dove Lapetra riporta il doppio confronto in parità a metà primo tempo, per poi toccare a Sissons, al 10’ della ripresa, siglare il punto che certifica il ritorno a Wembley ad un anno di distanza.

Sono le 20:30 del 19 maggio 1965 allorché l’arbitro ungherese Istvan Zsolt dà il fischio d’inizio alla finale che, sul piano dei pronostici, dovrebbe vedere favoriti i tedeschi che hanno concluso al terzo posto la seconda edizione della Bundesliga – torneo che si aggiudicheranno l’anno seguente –, mentre i londinesi devono cercare di sfruttare al massimo “l’aria di casa” che conoscono sin troppo bene.

Ed, in effetti, sul terreno di gioco questa diversa caratura fra le due squadre non si nota, con il West Ham ad avere a disposizioni le migliori occasioni per portarsi in vantaggio, seppur all’intervallo il punteggio sia ancora fermo sullo 0-0 di partenza.

Situazione di stallo che permane anche nella ripresa prima che – dopo un palo colpito da Dear e due favorevoli opportunità fallite da Brunnenmeier giunto a tu per tu con Standen – a divenire “re per una notte” sia il meno atteso, vale a dire l’ala destra Alan Sealey che al 70’ riceve la sfera poco dentro l’area di rigore per far partire una potente conclusione che si insacca appena sotto la traversa della porta difesa dal portiere jugoslavo Petar Radenkovic.

Deciso a sfruttare al meglio il suo “giorno dei giorni”, ecco che Sealey concede il bis appena due giri di lancette dopo, stavolta favorito da un rimpallo nell’area piccola susseguente alla battuta di un calcio di punizione, che gli consente di poter calciare a rete per il punto del definitivo 2-0 il pallone che si era ritrovato fortuitamente tra i piedi.

E così, a distanza di 12 mesi, Bobby Moore solleva il suo secondo trofeo, non facendo altro che le prove di quello che accadrà a fine luglio 1966, con ancora il capitano, stavolta della Nazionale inglese, a vedersi consegnare dalla Regina Elisabetta II la Coppa Rimet, grazie al successo per 4-2 in finale proprio sulla Germania Ovest, le cui reti, guarda caso, portano la firma di Hurst (tripletta) e Peters, ovvero, assieme a Moore, il “trio Hammers”.

Chi ha mai detto che “l’erba del vicino è sempre più verde”? Talvolta è quella di casa a risultare verdissima…                                   

ALLE OLIMPIADI DI PECHINO 2008 LA PRIMA VOLTA D’ORO DEL BRASILE FEMMINILE DI VOLLEY

articolo di Nicola Pucci

Dopo l’intermezzo della Cina, vincitrice del torneo femminile di pallavolo ai Giochi di Atene del 2004 dopo il tris consecutivo di Cuba, il volley a cinque cerchi torna a parlare sudamericano alle Olimpiadi di Pechino del 2008, celebrando il primo successo del Brasile.

Che la squadra verdeoro sia competitiva ai massimi livelli è ormai certificato da alcuni anni, se è vero che il Brasile, dopo il bronzo alle Olimpiadi del 1996 e del 2000 e il quarto posto ad Atene, è salito sul secondo gradino del podio ai Mondiali del 2006, battuto dalla Russia, per poi conquistare la vittoria in ben quattro delle cinque ultime edizioni della World Grand Prix, compresa quella disputata in Giappone, a Yokohama, a luglio.

A Pechino arriva con non celate ambizioni, oltre alla Russia iridata e alla Cina detentrice del titolo olimpico nonché padrona di casa, anche la nazionale azzurra di Massimo Barbolini, che ha infilato una serie di ben 26 vittorie consecutive tra il 2007 e l’inizio del 2008, compresi gli Europei e la Coppa del Mondo del 2007. La stessa Cuba, bronzo ad Atene e seconda alla World Grand Prix, gli Stati Uniti, Serbia e Polonia coltivano l’illusione, non certo campata in aria, di ben figurare in una rassegna che si annuncia equilibrata e che va in scena dal 9 al 23 agosto al Capital Indoor Stadium e al Beijing Institute of Technology Gymnasium.

Le dodici squadre sono suddivise in due gironi, e se Cuba sbaraglia la concorrenza nel gruppo A vincendo tutte e cinque le partite, tra cui il 3-2 rimontando due set di svantaggio alla Cina nella rivincita della semifinale di Atene che vide prevalere le asiatiche ed un netto 3-0 agli Stati Uniti, l’Italia è invece inserita nel gruppo B, battendo al debutto la Russia, iridata in carica, 3-1, per poi avere la meglio anche di Kazakistan, Algeria e Serbia, tutte sconfitte con un inequivocabile 3-0, per poi cedere sempre per 3-0 al Brasile all’ultimo turno nella sfida che vale alle sudamericane il primato in classifica nel girone.

Con la cubana naturalizzata italiana Taismary Aguero che vive una tragedia personale con la morte della madre, con Eleonora Lo Bianco in cabina di regia e con le prestazioni di Nadia Centoni, Simona Gioli e Francesca Piccinini in attacco, l’Italia si candida per un posto sul podio ma vede il sogno olimpico infrangersi ai quarti di finale nel match con gli Stati Uniti, condotto per 2-1 prima dell’imprevisto black-out che manda le americane in semifinale e rispedisce prematuramente le azzurre a casa. Cuba e Brasile avanzano a loro volta senza problemi, con un netto 3-0 contro Serbia e Giappone, mentre la Cina si sbarazza della Russia per 3-0, ripetendo il successo di quattro anni prima ad Atene e confermandosi in forma nella difesa del titolo.

Ma le due semifinali, se da un lato non regalano spettacolo vista la netta superiorità delle due squadre vincitrici, dall’altro evidenziano il definitivo salto di qualità del Brasile che demolisce la Cina strappandogli la corona, 3-0, e l’ammissione tra le grandi del volley delle pallavoliste americane, ancor più facilmente vincitrici di Cuba, altro 3-0.

E così in finale si sfidano il Brasile di José Roberto Guimarães, che si avvale della vena in schiacciata di Paula Pequeno, che a fine torneo si meriterà la palma di miglior giocatrice della manifestazione, della magistrale regia di Helia de Souza e del carisma in difesa di Fabiana de Oliveria, e gli Stati Uniti di Lang Ping, coach cinese, ha in Logan Tom la miglior realizzatrice in circolazione. Ma se i primi due set sono all’insegna dell’equilibrio con il Brasile che si impone 25-15 nel primo parziale e le americane che pareggiano nel secondo, 25-18, dal terzo set in poi il sestetto verdeoro prende decisamente le redini dell’incontro in mano, trascinato da Sheilla de Castro e Paula Pequeno, autrici rispettivamente di 19 e 16 punti. Agli Stati Uniti non basta il consueto contributo offensivo di Logan Tom, 16 punti, il Brasile vince infine 3-1 e sale per la prima volta sul tetto olimpico, come esattamente sedici anni prima, a Barcellona 1992, aveva fatto la squadra maschile.

Chi allenava quel gruppo storico di campioni? Ovviamente José Roberto Guimarães, anello di congiunzione tra uomini e donne della pallavolo brasiliana.

NOBUYUKI AIHARA, SECONDO ORO GIAPPONESE NELLA GINNASTICA

Nobuyuki Aihara – da wikipedia.org

articolo di Giovanni Manenti

Disciplina che, sino alle Olimpiadi di Londra 1948 comprese, aveva visto primeggiare quasi esclusivamente atleti dell’Europa Occidentale, la ginnastica artistica viene letteralmente travolta dall’entrata in scena della “corazzata sovietica”, che in occasione dei Giochi di Helsinki 1952 domina il medagliere aggiudicandosi, nei due distinti settori maschile e femminile, qualcosa come 22 metalli (9 ori, 11 argenti e 2 bronzi), rispetto ai soli 8 dell’Ungheria ed ai 7 della Svizzera, con quest’ultima che nella capitale finlandese recita il proprio “canto del cigno”.

E se in campo femminile l’egemonia sovietica viene scalfita essenzialmente da due sole ginnaste, ovvero l’ungherese Agnes Keleti prima e la cecoslovacca Vera Caslavska poi – delle quali abbiamo già trattato –, tra i maschi emerge progressivamente il grande rivale costituito dal team giapponese, che ad Helsinki colleziona appena due argenti ed altrettanti bronzi, per poi dominare a propria volta la scena per tre edizioni – da Tokyo 1964 a Monaco 1972 – consecutive dei Giochi e quindi trovarsi di fronte quattro anni dopo a Montreal il “leggendarioNikolai Andrianov, capace di salire ben 7 volte sul podio, con 4 ori, 2 argenti ed un bronzo.

Ma, dall’esordio scandinavo sino alle Olimpiadi organizzate nel proprio paese, vi sono ancora due rassegne in cui si inizia a “costruire” il successivo “dream team” nipponico, capace di aggiudicarsi ben cinque ori consecutivi (da Roma 1960 sino a Montreal 1976) nel concorso generale a squadre, il cui pioniere e primo leader assoluto è Takashi Ono – anche del quale abbiamo già parlato – che nel 1956 a Melbourne diviene il primo ginnasta del Sol Levante a primeggiare in una prova, imponendosi nella sbarra, oltre a collezionare altresì tre argenti ed un bronzo.

Quattro anni dopo a Roma, Ono raggiunge la sua consacrazione, mettendosi al collo ben tre medaglie d’oro – concorso generale a squadre, sbarra e volteggio –, abbinandovi l’argento nel concorso generale individuale ed il bronzo agli anelli ed alle parallele, ma, diversamente a quanto accaduto nella metropoli australiana, non è l’unico giapponese a salire sul gradino più alto del podio.

Nato il 16 dicembre 1934 a Takasaki, città di oltre 300mila abitanti nella regione di Kanto, Nobuyuki Aihara si distingue in particolar modo nelle specialità degli anelli e delle parallele, oltre ad eccellere al corpo libero, entrando a far parte della Nazionale che si presenta alle Olimpiadi di Melbourne 1956.

Sulle pedane del “West Melbourne Stadium”, è così in grado di fornire un fondamentale contributo – specie al corpo libero con 19,10 punti ed agli anelli con 19,05 – alla medaglia d’argento nel concorso generale a squadre, primo alloro in questo evento per il proprio paese, non distante (568,25 punti totali a 566,40) dall’Unione Sovietica e con viceversa un margine di oltre 10 lunghezze sulla Finlandia.

Qualificatosi per le finali di specialità a lui più congeniali, Aihara si classifica sesto alle parallele a pari merito con il finlandese Bernt Lindfors nella prova che incorona Viktor Chukarin a precedere la coppia nipponica formata da Masami Kubota ed Ono, mentre di poco migliore è il piazzamento agli anelli – quinto a pari merito con Ono – ancorché a soli (19,10 a 19,05) 0,05 centesimi di punto dai connazionali Kubota e Masao Takemoto che si dividono il gradino più basso del podio alle spalle dei sovietici Albert Azaryan e Valentin Muratov.

Diversa la situazione per quanto attiene al corpo libero, dato che i 19,10 punti raccolti per il concorso generale a squadre – all’epoca i ginnasti svolgevano solo queste due esibizioni (obbligatoria e volontaria) per ogni specialità, il cui punteggio andava a comporre la classifica sia del concorso generale individuale che ai singoli attrezzi – valgono ad Aihara l’argento a pari merito con Chukarin e lo svedese William Thoresson (oro quattro anni prima ad Helsinki), con il successo ad arridere a Muratov con i suoi 19,20 punti.

Giapponese che aveva concluso altresì il concorso generale individuale in decima posizione, il quale ha modo di confermare le proprie qualità due anni dopo in occasione dei Mondiali che si svolgono ad inizio luglio 1958 a Mosca, contribuendo con 114,30 punti all’argento nel concorso generale a squadre, che i padroni di casa si aggiudicano (575,45 a 572,60) con 2,85 punti di scarto, per poi ben comportarsi anche nelle singole specialità.

Senza riuscire stavolta a salire sul podio al corpo libero, dove si posiziona quarto con 19,350 punti nella prova che peraltro il Giappone si aggiudica grazie a Takemoto a precedere (19,550 a 19,500) Ono – per quello che è l’unico titolo iridato che sfugge ai sovietici della nuova stella Boris Shakhlin –, il 23enne Aihara replica il piazzamento al volteggio, per poi aggiudicarsi viceversa l’argento agli anelli, dove i suoi 19,475 punti sono superati dal solo Azaryan, primo grande interprete della specialità.

Le buone prestazioni sinora ottenute confortano Aihara per le concrete possibilità di far meglio nelle successive stagioni, con obiettivo principale le Olimpiadi di Roma, che vedono le gare di ginnastica artistica aver luogo nel suggestivo scenario delle Terme di Caracalla.

Con la formula stavolta cambiata, ovvero con i punteggi ottenuti nel concorso generale a squadre a comporre solo il risultato del concorso individuale, mentre per le singole specialità gli stessi valgono solo a stabilire i sei ginnasti che prenderanno parte alla finale portandosi dietro la metà di punti ottenuti in qualificazione, ecco che Aihara contribuisce con il suo punteggio di 114,40 alla prima affermazione giapponese nella prova a squadre, avendo la meglio (575,20 a 572,70) sui sovietici e con l’Italia a completare il podio.

Il punteggio consente altresì al 25enne nipponico di migliorare il proprio piazzamento nel concorso individuale, piazzandosi settimo nella gara vinta di stretta misura (115,950 a 115,900) da Shakhlin rispetto ad Ono, per poi qualificarsi come già a Melbourne alle singole prove agli anelli, parallele e corpo libero.

Agli attrezzi, Aihara, presentatosi agli anelli con il quinto punteggio di qualifica, conferma la posizione, con Azaryan a ribadire la sua assoluta supremazia nella specialità a precedere (19,725 a 19,500) Shakhlin, così come alle parallele, dove il quarto posto in qualifica è anche quello conclusivo, con stavolta Shakhlin a salire sul gradino più alto del podio davanti (19,400 a 19,375) all’azzurro Giovanni Carminucci.

Il podio del corpo libero ai Giochi di Roma – da nytimes.com

Resta il corpo libero, alla cui finale Aihara parte con un leggero margine (9,650 a 9,625) di vantaggio su Titov e, sapendo di avere a disposizione l’occasione della vita per raggiungere la “gloria olimpica”, non si fa condizionare dall’emozione ed, eseguendo un esercizio premiato dai Giudici con 9,80 rispetto al 9,70 del sovietico, può orgogliosamente vantare il fatto di essere il secondo ginnasta del Giappone ad aggiudicarsi una medaglia d’oro olimpica.

C’è un solo vuoto, oramai da colmare, per il ginnasta del Sol Levante, ovvero aggiudicarsi anche un titolo iridato individuale, missione portata vittoriosamente a termine due anni dopo ai Mondiali in programma a Praga ad inizio luglio 1962 ed in cui, pur fornendo stavolta un contributo leggermente minore alla conferma nel concorso generale a squadre, che vede il Giappone prevalere (574,650 a 573,150) per soli 1,50 punti sull’Unione Sovietica, riesce comunque a qualificarsi per le finali agli anelli ed al corpo libero.

All’attrezzo, l’eredità di Azaryan viene raccolta da Titov, che ha la meglio (19,550 a 19,425) sull’astro nascente Yukio Endo e Shakhlin che concludono a pari merito, con Aihara ai margini del podio con i suoi 19,250 punti, per poi ribadire la sua superiorità al corpo libero, nonostante debba condividere la prima posizione (19,500 per entrambi) con il 25enne Endo.

Oramai la strada è tracciata, già dalle Olimpiadi di Tokyo 1964 prende forma lo squadrone giapponese che, oltre a confermare l’oro nella prova a squadre, si aggiudica per la prima volta anche il concorso generale individuale – che in seguito vedrà in altre sei occasioni primeggiare un ginnasta del Sol Levante – grazie ad Endo e, per Aihara è giunto il tempo di farsi da parte.

Con il legittimo orgoglio di essere stato, assieme al ben più celebre Takashi Ono, uno dei campioni che hanno gettato il seme su cui è successivamente sbocciata l’era vincente della ginnastica nipponica.

E, già che parliamo di seme, Aihara sposa Toshiko Shirasu, la quale è componente del team femminile bronzo nel concorso a squadre sia ai Mondiali di Praga 1962 che ai Giochi di Tokyo 1964, unione dalla quale nasce Yutaka Aihara, a propria volta bronzo nel volteggio alla rassegna iridata di Indianapolis 1991 ed a squadre l’anno dopo alle Olimpiadi di Barcellona.

Come si dicechi semina raccoglie!”…      

ALBERTO PIGAIANI, IL SOLLEVATORE ABBONATO AL PODIO A CUI MANCO’ IL GRANDE SUCCESSO

articolo di Nicola Pucci

Non ho mai condiviso la sgradevole abitudine di considerare perdente un atleta abile nel salire sul podio nei grandi eventi internazionali ma incapace di cogliere un successo di enorme pregio. La storia dello sport è piena zeppa di casi del genere, uno su tutti il ciclista Raymond Poulidor, troppo spesso terminato alle spalle di Jacques Anquetil sulle strade del Tour de France, che più di ogni altro rappresenta l’emblema dello sportivo destinato a soccombere. Campioni, altroché perdenti, perché stare a quei livelli è impresa non certo da sottostimare, e campione è il protagonista del nostro racconto odierno, il sollevatore Alberto Pigaiani, che tra poco vedrete vanta una collezione non da poco di metalli preziosi. Ad eccezione dell’oro…

Milanese classe 1928, Pigaiani fin da ragazzo pratica con buoni risultati calcio, atletica, nuoto ed hockey su ghiaccio, per poi, nei primi Anni ’40, vista la crescita fisica e la stazza, dirottarsi al sollevamento pesi. Alberto è potente ed agile allo stesso tempo, ci sa fare, indubbiamente, ma sono anni difficili, tormentati dal secondo conflitto bellico, e per gareggiare con continuità e possibilmente eccellere bisogna attendere il dopoguerra.

Fortuna vuole che il lombardo, che gareggia per la Pro Patria, incroci la sua strada con quella di Attilio Bescapè, campione europeo a Genova nel 1934 ed argento ai Mondiali di Vienna del 1938 (battuto nella categoria fino a 60 kg. dal tedesco Georg Liebsch), che diventa il suo allenatore, portandolo ai livelli che consentiranno a Pigaiani, “il gigante buono” che compete tra i pesi massimi, di diventare sollevatore tra i più forti del pianeta.

In effetti Alberto inizia a costruirsi una buona reputazione nel 1955, quando si impone ai Giochi del Mediterraneo di Barcellona superando l’egiziano Mohamed Gaessa e il francese Raymond Herbaux, concludendo altresì all’ottavo posto ai Mondiali di Monaco di Baviera, che valgono anche come Europei e che regalano al milanese la quinta piazza. E se l’anno successivo, 1956, le Olimpiadi di Melbourne bussano alla porta, ecco che Pigaiani avvia la parabola più redditizia della sua carriera.

A giugno, quale preludio dei Giochi, Alberto prende parte agli Europei di Helsinki, mettendosi al collo la medaglia d’argento, terminando con 432,5 kg. alle spalle del sovietico Alexei Medvedev, che con 465 kg. sbaraglia la concorrenza. E il 26 novembre, al Royal Exhibition Building della città australiana, il milanese, in assenza del fuoriclasse moscovita, si trova a dover battagliare con l’americano Paul Anderson (campione del mondo proprio a Monaco di Baviera e grande favorito della gara) e l’argentino Humberto Selvetti, con il sudamericano a prendere la testa del concorso con un’alzata da record olimpico (175 kg.) nella distensione lenta e lo statunitense a riagganciare il rivale con la prova di slancio, sommando entrambi 500 kg. che premiano infine Anderson per un peso corporeo inferiore. Pigaiani è medaglia di bronzo, a sua volta prevalendo di un soffio sull’iraniano Firouz Pojhan, che solleva 2,5 kg. in meno nello slancio, e salendo sul podio alle Olimpiadi rinvigorisce la buona tradizione dell’Italia nei pesi massimi che rimanda ai tempi d’oro di Filippo Bottino (Anversa 1920) e Giuseppe Tonani (Parigi 1924).

L’anno dopo si rinnova l’appuntamento con i Mondiali, e a Teheran Pigaiani si conferma sollevatore di livello internazionale, recitando da protagonista e salendo stavolta sul podio con complessivi 452,5 kg., bronzo alle spalle di Medvedev, primo con 500 kg., e dello stesso Selvetti, che solleva 485 chilogrammi.

Avvicinando ormai la soglia dei 30 anni, Pigaiani mira l’obiettivo sui Giochi di Roma del 1960, epilogo di una carriera da sollevatore di prima fascia che regala al milanese altre due medaglie europee. Ai Mondiali di Stoccolma del 1958, infatti, che valgono anche come Europei, Alberto è quarto con 440 kg., chiudendo in scia all’imbattibile Medvedev, all’americano Dave Ashman e allo stesso Pojhan, che si prende la rivincita dei Giochi relegando l’azzurro ai piedi del podio mondiale ma argento europeo dietro al sovietico. E se l’anno dopo, ai Mondiali di Varsavia del 1959, Pigaiani è rispettivamente quinto e quarto, agli Europei di Milano del 1960 è nuovamente terzo sollevando 445 kg., preceduto solo dal sovietico Yuri Vlasov (500 kg.) e dal bulgaro Ivan Vesselinow (455 kg.).

Alle Olimpiadi di Roma del 1960 Vlasov si conferma il più forte del lotto, vincendo la medaglia d’oro con il nuovo record del mondo di 537,5 kg. complessivi, battendo nettamente i due americani James Bradford (già argento ad Helsinki nel 1952, 512,5 kg.) e Norbert Schemansky (campione olimpico in Finlandia ed argento a Londra 1948, 500 kg.), e Pigaiani, quarto dopo la prova di distensione lenta e che vorrebbe dedicare un grande risultato al papà morente, alza solo 127,5 kg. con lo strappo e 170 kg. con lo slancio, terminando in settima posizione, insoddisfacente per la sua gara di commiato dall’attività agonistica.

Poco importa, pur non vantando un grande successo ma con un buon bottino d’argenti e bronzi, il nome di Alberto Pigaiani si associa a quello di un campione. Provate a fare altrettanto se vi riesce…

IL RISCATTO DI JEFF ROUSE SUI 100 DORSO AD ATLANTA 1996, ASSIEME AL DOPPIO PODIO CUBANO

Il podio dei 100 dorso di Atlanta – da gettyimages.it

articolo di Giovanni Manenti

La specialità del dorso nel nuoto maschile entra definitivamente nell’era moderna nel decennio che va da fine anni ’60 ad analogo periodo di fine anni ’70, il tutto grazie alle straordinarie imprese di due “leggendari” protagonisti quali il tedesco orientale Roland Matthes (oro su entrambe le distanze dei 100 e 200 metri ai Giochi di Città del Messico 1968 e Monaco 1972) e l’americano John Naber, che ne raccoglie il testimone in occasione delle Olimpiadi di Montreal 1976, anche in questo caso salendo sul gradino più alto del podio nelle due prove.

A tal riguardo le aride cifre sono impietose, in quanto i relativi record mondiali dei 100 dorso vengono abbattuti dal 59”1 dell’americano Charlie Hickcox di fine agosto 1967 sino al 55”49 di Naber di metà luglio 1976 – con un conseguente miglioramento di 3”61 –, mentre ancor più ampio è il margine sulla doppia distanza, che dal 2’09”4 di Hickcox vede il record scendere a 1’59”19 stabilito da Naber nella finale olimpica di Montreal, pari a 9”21 in meno.

A tali ragguagli cronometrici, si aggiunga il fatto che entrambi i primati resistono per ben 7 anni, prima che a migliorarli sia l’americano Rick Carey, a propria volta oro sulle due distanze ai “Giochi dimezzati” di Los Angeles 1984, per poi vedere nel corso dei restanti anni ’80 emergere i sovietici Igor Polyansky e Sergey Zabolotnov, assieme all’americano Dave Berkoff ed al giapponese Daichi Suzuki.

Con i progressi dei primati peraltro contenuti in 0”98 centesimi sulla più corta distanza ed in 1”05 sui 200 metri, un altro “scossone” alla specialità giunge con l’inizio della successiva decade, che vede quali principali appuntamenti i Mondiali di Perth 1991 e Roma 1994, oltre ai Giochi di Barcellona 1992 ed Atlanta 1996.

In questo quinquennio o poco più, ad emergere in entrambe le prove è lo spagnolo Martin Lopez Zubero – del quale abbiamo già trattato –, mentre viceversa specialista della più lunga distanza è il sovietico di origine russa Vladimir Selkov ed, al contrario, a divenire protagonisti dei 100 dorso sono l’americano Jeff Rouse ed il canadese Mark Tewksbury, con ad aver già concesso anche a quest’ultimo il meritato spazio.

Ecco pertanto che quest’oggi nel nostro racconto ci concentriamo, per due diversi motivi, sia sulla esaltante carriera dello stesso Rouse che sui due avversari che lo affiancano sul podio ai Giochi di Atlanta, per un evento unico nel panorama natatorio del loro paese, ma lo scopriremo con calma…

Nato il 6 febbraio 1970 a Fredericksburg, città di poco meno di 30mila anime nella Virginia, Jeffrey Norman “Jeff” Rouse inizia, come ogni nuotatore che si rispetti, all’età di 5 anni nella piscina vicino alla propria abitazione, per poi trasferirsi già a 9 anni presso i quotati “Quantico Devil Dolphins” dove già comincia ad emergere nelle graduatorie giovanili, per poi imporsi definitivamente, dopo essersi diplomato alla “Stafford High School” nel 1988, con l’ingresso alla “Stanford University”, divenendo in breve tempo la stella dei “Stanford Cardinal”, da cui erano in precedenza usciti campioni quali John Moffet e Pablo Morales.

Con una corporatura di 1,93 metri per 86 chili, Rouse è perfetto per lo stile a dorso, che il 19enne americano interpreta affinando in allenamento la parte tecnica, convinto che ciò lo porti ad ottenere tempi migliori, ed i fatti non tardano a dargli ragione, sin dalla sua prima grande apparizione a livello internazionale, ovvero i Campionati Panpacifici di Tokyo 1989, dove si impone sui 100 dorso a precedere (56”34 a 56”52) il connazionale Scot Johnson, con Tewksbury a completare il podio, oltre a far parte della vittoriosa staffetta 4x100mista.

Capace di aggiudicarsi nei suoi quattro anni al college ben 7 titoli NCAA, Rouse sale ai vertici della specialità sui 100 dorso nel corso del 1991, stagione inaugurata ad inizio gennaio con la partecipazione alla rassegna iridata in programma a Perth, in Australia.

Qui ha inizio la prima, vera “sfida a tre” con Tewksbury e Lopez Zubero, che il 21enne americano volge a proprio favore dapprima facendo registrare in batteria il record dei campionati con il tempo di 55”34 e quindi migliorandosi in finale a precedere (55”23 a 55”29) il canadese nonostante che anche quest’ultimo sia andato sotto il precedente limite, con lo spagnolo a completare il podio in 55”61.

Un Rouse che prende parte anche ai 200 metri solo per concludere ottavo ed ultimo nella finale che incorona Lopez Zubero che ha la meglio (1’59”52 ad 1’59”98) sull’eclettico azzurro Stefano Battistelli, per poi contribuire, con il tempo di 55”28 nella prima frazione, al titolo della staffetta 4x100mista, anch’essa a concludere con il record dei campionati di 3’39”66.

Ma siamo solo all’inizio, poiché in occasione dei Campionati Panpacifici che si svolgono nella quarta settimana di agosto 1991 a Edmonton, il 21enne della Virginia mette a segno la sua unica doppietta 100 e 200 metri dorso in carriera, ma mentre sulla doppia distanza realizza il tempo di 2’00”85 di oltre 2” superiore al primato assoluto, sui 100 dapprima avvicina il record di 54”51, stabilito da Berkoff ai Giochi di Seul 1988, aggiudicandosi l’oro a precedere (54”67 a 55”19) Tewksbury, per poi divenire il primo al mondo a scendere sotto la “barriera dei 54” netti” allorché lancia in prima frazione con 53”93 la staffetta 4x100mista.

Logico favorito, pertanto, in occasione delle Olimpiadi di Barcellona 1992, rassegna per la quale Rouse si qualifica con l’eccellente tempo di 54”07 ai Trials di Indianapolis che si svolgono ad inizio marzo e da cui stacca il biglietto per la Catalogna anche l’oramai 26enne Berkoff.

Aver svolto le prove di selezione così in anticipo rispetto ai Giochi che si disputano a fine luglio diviene oggetto di discussione in casa Usa, ancorché l’esito delle batterie che si svolgono il 30 luglio nell’impianto delle “Piscinas Bernat Picornell” del capoluogo catalano vedano Rouse realizzare il miglior tempo di 54”63 rispetto al 54”75 di Tewksbury, al 54”84 di Berkoff ed al 55”37 di Lopez Zubero, i quattro pretendenti alla zona medaglie.

Un “poker” di candidati al podio, con un netto favorito in Rouse ed uno che dovrà a malincuore rinunciare alla medaglia, quello che al pomeriggio del 30 luglio, alle ore 18:00, si tuffa in acqua per prendere posizione sui blocchi di partenza, non sapendo ancora di dare vita ad una delle più emozionanti finali sulla distanza nella storia dei Giochi, con tutti e quattro a scendere sotto i 55” netti, un evento che, tanto per capirsi, si ripeterà solo a 12 anni di distanza nell’edizione di Atene ’04.

Nella sua veste di prescelto in fase di pronostico, il 22enne americano prende la testa in avvio, virando ai 50 metri in 26”06 rispetto al 26”39 di Tewksbury, con Berkoff e Lopez Zubero a seguire con 26”47 e 26”87 rispettivamente, prima che nella vasca di ritorno il terzetto composto dai due americani e dal canadese si stacchi per andarsi a giocare il podio.

Rouse prosegue con bracciate vigorose che lo portano a realizzare in 27”98 il secondo miglior parziale nella vasca di ritorno, non sufficiente però a rintuzzare la rimonta di Tewksbury che, completando i secondi 50 metri in 27”59, lo raggiunge per poi far suo l’oro nelle ultime bracciate “restituendo” al suo rivale il distacco di 0”06 centesimi che li aveva divisi ai Mondiali di Perth ’91, ma con tempi di ben altro spessore, 53”98 e 54”04 (rispettivamente a 0”05 e 0”11 centesimi dal record mondiale), entrambi al di sotto del precedente limite olimpico di Berkoff, il quale conclude terzo in 54”78.

Un’autentica beffa anche per un solitamente laconico Rouse che stavolta non può fare a meno di commentare: “oggettivamente, almeno sulla carta, la vittoria sarebbe dovuta essere mia!”, pur avendo ben poco da rimproverarsi avendo nuotato nel suo secondo miglior tempo di sempre, ancorché la delusione per la mancata “gloria olimpica” probabilmente aumenti allorché, all’indomani, migliora il suo stesso limite con il 53”86 in prima frazione della staffetta 4x100mista che eguaglia al centesimo (3’36”93) il record mondiale ed olimpico stabilito quattro anni prima a Seul.

Non hai vinto, ritenta…”, recita un vecchio slogan, ma specie nel nuoto quattro anni rappresentano un’eternità, anche se Rouse non smette di vincere e, forte anche dell’abbandono dell’attività da parte di Tewksbury, incrementa il proprio palmarès ai Giochi Panpacifici aggiudicandosi il doppio oro sui 100 dorso in 54”85 e con la staffetta 4x100mista nell’edizione di Kobe 1993.

Ben più consistente il banco di prova costituito dalla rassegna iridata di Roma 1994, passata peraltro alla storia come “la più negativa” in assoluto per il team Usa, che si aggiudica solo quattro titoli, di cui due con le staffette maschili, anche a causa del quanto mai discusso strapotere delle ragazze cinesi che si aggiudicano ben 12 delle 14 prove in programma.

Rouse salva parzialmente l’onore “a stelle e strisce”, facendosi clamorosamente sorprendere da Lopez Zubero nella finale dei 100 dorso, con tempi (55”17 a 55”51) ampiamente alla sua portata, soprattutto per poi nuotare in 54”49 la prima frazione della staffetta 4x100mista che con il record dei campionati di 3’37”74 regala agli Stati Uniti uno dei quattro titoli della manifestazione.

In vista dell’appuntamento costituito dalle Olimpiadi di Atlanta vi sono ancora un paio di step da superare, il primo dei quali rappresentato dall’edizione 1995 dei Giochi Panpacifici che si svolgono a metà agosto proprio nella capitale della Georgia, dove Rouse completa il suo bottino di ben 9 medaglie d’oro con la consueta accoppiata nella prova individuale, dove precede (54”99 a 55”18) il connazionale Tripp Schwenk, e nella staffetta 4×100 mista.

Occorre però aggirare anche l’ostacolo costituito dai Trials olimpici che, come quattro anni prima, hanno luogo ad inizio marzo ad Indianapolis e che vedono l’oramai 26enne della Virginia qualificarsi per la sua seconda partecipazione ai Giochi, pur piazzandosi stavolta (54”94 a 55”15) alle spalle di Schwenk, peraltro più a suo agio sulla doppia distanza.             

Eccoci dunque giunti all’ultimo capitolo del nostro racconto, con Rouse a presentarsi presso l’impianto del “Georgia Tech Aquatic Center” di Atlanta in veste altresì di capitano del team Usa e con il ruolo di “grande favorito” per la medaglia d’oro nella gara individuale in quanto la specialità non è certo progredita nel quadriennio post olimpico e, dei suoi “vecchi” rivali, è presente solo Lopez Zubero, oltre al russo Selkov che però, principalmente specialista dei 200 metri, non riesce a qualificarsi per la finale, facendo registrare il nono tempo ed escluso per soli 0”05 centesimi.

Viceversa, l’esito delle batterie che si svolgono al mattino del 23 luglio 1996 – e che confermano nell’americano il più serio pretendente alla “gloria olimpica” facendo registrare il miglior tempo di 54”20 fuori dalla portata degli altri iscritti alla prova dei 100 dorso – fa salire alla ribalta due “facce nuove”, ovvero la coppia cubana composta dal 23enne Rodolfo Falcon e dall’appena 20enne Neisser Bent, ancorché il primo sia già stato capace di entrare in finale quattro anni prima a Barcellona, concludendo in settima posizione.

Ad Atlanta, al contrario, a farsi preferire è il più giovane Bent che, aggiudicandosi la quinta serie con il tempo di 54”83 a precedere Lopez Zubero, realizza altresì il record nazionale, mentre il più esperto Falcon fa altrettanto imponendosi nella batteria successiva fermando i cronometri a 55”29, terzo tempo di qualificazione.

Con lo spettro di subire una seconda beffa come quella patita quattro anni prima in Catalogna da Tewksbury, Rouse imprime alla gara un ritmo elevato sin dalle prime bracciate, che lo porta a virare a metà gara in 26”30, addirittura 0”02 centesimi al di sotto del proprio passaggio mondiale, per poi non avere eccessive difficoltà nel concludere vittoriosamente in 54”10 con largo margine sul resto dei finalisti.

Ma la grande sorpresa giunge dai piazzamenti dove, mentre Lopez Zubero e Schwenk concludono non meglio che quarto e quinto con i rispettivi tempi di 55”22 e 55”30, a far compagnia sul podio allo specialista della Virginia sono proprio i due caraibici, con l’esito della batterie ribaltato, ovvero con Falcon a precedere (54”98 a 55”02) il più giovane connazionale per quelle che, a tutt’oggi, sono le uniche due medaglie conquistate da Cuba nel nuoto.

Oseremmo dire quasi ovviamente, Rouse unisce all’oro nella gara individuale anche quello in staffetta, dove anche stavolta fa registrare un tempo di 53”95 largamente inferiore rispetto a quello nuotato nella finale dei 100 dorso, fornendo peraltro un fondamentale contributo al record mondiale di 3’34”84 stabilito assieme ai compagni Jeremy Linn, Mark Henderson e Gary Hall Jr.

Davvero un’uscita di scena diremmo perfetta per completare un’esaltante carriera per l’americano – il cui primato individuale di 53”86 resta, per la cronaca, ineguagliato anch’esso per 7 anni, prima che a migliorarlo sia il connazionale Lenny Krayzelburg scendendo a 53”60 a fine agosto 1999 –, il quale viene, a giusta ragione, introdotto nel 2001 nella “International Swimming Hall of Fame”.

Ma anche un dolce ricordo per i due dorsisti cubani che, completando il podio di Atlanta, hanno anch’essi in un certo modo, “fatto la storia” del proprio paese.

KATHRIN BORON, LA REGINA DEL 2 E DEL 4 DI COPPIA IN QUATTRO OLIMPIADI

articolo di Nicola Pucci

A curiosare negli albi d’oro delle Olimpiadi, c’è da scovare storie di sport di un certo interesse. Prendiamo, ad esempio, la top-ten dei plurimedagliati ai Giochi del canottaggio: accanto a 6 atleti rumeni e 3 britannici che hanno colto il maggio numero di metalli, compare una ragazza tedesca che di nome fa Kathrin Boron. Ed il suo palmares, pressoché mai menzionato, è davvero di quelli da togliersi il cappello.

Kathrin nasce il 4 novembre 1969 a Eisenhüttenstadt, nell’allora Germania Est, e da bambina, assieme alla sorella maggiore, pratica atletica leggera, dovendo però poi interrompere l’attività per problemi di salute. Quella che sembra una condanna, in effetti per lei risulterà invece la chiave di volta della sua vita sportiva, in quanto durante uno scouting di giovani talenti viene dirottata verso il canottaggio, denunciando abilità naturale e venendo affiliata al club dei canottieri della SG Dynamo Potsdam. Ha poco più che 13 anni, e da quel giorno la strada è tracciata.

La Boron eccelle fin da subito, conquistando un titolo giovanile dietro l’altro e vincendo due ori ai Mondiali juniores, nel 4 di coppia a Račice nel 1986 e nel singolo a Colonia nell’edizione del 1987, entrando già l’anno dopo nei quadri della Nazionale maggiore, seppur un infortunio alla caviglia le pregiudichi la possibilità di partecipare alle Olimpiadi di Seul del 1988. Avrà modo di riscattarsi, con gli interessi.

Nel 1989, infatti, la tedesca inizia la sua collezione di medaglie ai Mondiali, trionfando nel 4 di coppia a Bled assieme a Sybille Schmidt, Jutta Behrendt e Jana Thieme, per poi bissare con Beate Schramm sul Lago Barrington in Tasmania dodici mesi dopo, per quello che sarà il suo ultimo successo sotto la bandiera della Germania Est. A Vienna (1991, 2 di coppia con la stessa Schramm), al Lago di Aiguebelette (1997, sia nel 4 di coppia che nel 2 di coppia, stavolta con Meike Evers), a Colonia (1998, 4 di coppia), a Santa Caterina in Canada (1999, assieme alle Thieme) ed infine a Lucerna (2001, accoppiata a Kerstin Kowalski), la Boron è l’incontrastata regina del canottaggio mondiale, e con 8 medaglie d’oro iridate complessive, a cui aggiungerne 5 d’argento, il suo palmares è il più fornito della storia della specialità.

2 di coppia e 4 di coppia, dunque, sono gli esercizi in cui Kathrin svetta sulle altre (anche se nel 1995, ai Mondiali di Tampere, gareggia nel singolo, giungendo quarta ad un soffio dal podio), ed è tempo ora di andarsi a prendere quella gloria olimpica che le è stata negata a Seul 1988. Si comincia con Barcellona, 1992, quando, associata a Kerstin Koppen (che sostituisce la Schramm, che ha optato per la gara di singolo, dove sarà solo 12esima), entra in acqua al Lago di Bañolas per la gara del 2 di coppia. E le teutoniche trovano nelle rumene Elisabeta Lipa (vincitrice proprio della gara di singolo) e Veronica Cochela (argento a Seul con la stessa Lipa) le rivali più accreditate, già segnando in batteria i due tempi migliori (rispettivamente, 7’16″74 le tedesche e 7’16″41 le rumene), con la coppia cinese composta da Gu Xiaoli e Lu Huali a vestire i panni di terzo incomodo, essendosi imposte nella terza batteria seppur con un tempo più alto, 7’27″62. E se in semifinale Boron e Koppen rifilano a Lipa e Cochela un distacco di oltre due secondi e mezzo, con le asiatiche a segnare il miglior cronometro nella seconda in 6’58″09, in finale la sfida è lanciata, con le due imbarcazioni favorite a fare inizialmente gara appaiata, prima dell’allungo decisivo che consente alla coppia tedesca di andarsi a prendere la medaglia d’oro a tempo di record olimpico, 6’49″00, con le rumene argento in 6’51″47 e le cinesi, provate dall’exploit in semifinale, che salvano il bronzo dall’attacco sferrato dalle australiane Philippa Baker e Brenda Lawson.

Quattro anni dopo, ai Giochi di Atlanta del 1996, la Boron compete con il 4 di coppia composto anche da Katrin Rutschow, dalla stessa Koppen e da Jana Sorgers, che in virtù dei titoli mondiali colti nelle edizioni di Indianapolis del 1994 e di Tampere del 1995, oltre ad essere campione olimpico in carica sia a Seul che a Barcellona, attira su di sè i favori del pronostico. L’imbarcazione cinese, che si affida a Cao Mianying, Zhang Xiuyun, Liu Xirong e Gu Xiaoli, è l’unica ad aver sconfitto in passato la Germania (Mondiali di Račice del 1993), ma è costretta a passare per i ripescaggi per poter accedere alla finale. Le tedesche vincono senza problemi la seconda batteria con il miglior tempo di 6’36″00, il Canada si impone nella prima in 6’39″32, ed è proprio il 4 di coppia del paese della foglia d’acero che prova ad insidiare le favorite all’atto decisivo al Lago Lanier, venendo però poi irrimediabilmente staccate. Kathrin e le sue compagne vincono come da pronostico, 6’27″44, e per gli altri due gradini del podio proprio il Canada e la sorprendente Ucraina librano un duello serrato che vede, infine, le ex-sovietiche, con l’ausilio del fotofinish, anticipare le rivali per l’inezia di 2 centesimi. Quel che conta, è che la Boron si mette al collo la seconda medaglia d’oro a cinque cerchi. E siamo solo a metà dell’opera.

Alternandosi con efficacia tra 2 e 4 di coppia, alle Olimpiadi di Sydney del 2000 la Boron gareggia assieme a Jana Thieme, e se le due tedesche portano in dote il titolo mondiale colto l’anno prima in Canada, proprio le ragazze americane, campionesse in carica, non sono presenti in acqua al Sydney International Regatta Centre. Ed è così che le germaniche ritrovano quali sfidanti più accreditate due antiche rivali, Lipa e Cochela, sconfitte a Barcellona nel 1992. Tedesche e rumene non tradiscono le attese, fissando i due migliori tempi in batteria, 7’04″74 e 7’08″70 rispettivamente, ed entrando a vele spiegate in una finale per la quale si qualificano anche Olanda (Pieta van Dishoeck ed Eeke van Nes), Lituania (Birute Sakickiene e Kristina Poplavskaja), Stati Uniti (Carol Skricki e Ruth Davidon) ed Australia (Marina Hatzakis e Bronwyn Roye). Ma all’atto decisivo non c’è davvero storia, troppo netto il divario tra il 2 di coppia della Germania e le altre imbarcazioni, con le americane a tenere la seconda posizione fino ai 1500 metri per poi vedersi scavalcare dalla olandesi che con un rush conclusivo imperioso, che consente loro di registrare il miglior tempo nell’ultimo quarto di gara, chiudono sul secondo gradino del podio, attardate sì di quasi 5 secondi dalle tedesche ma ben davanti alle lituane, che strappano il bronzo anticipando gli Stati Uniti e le deludenti rumene, solo quinte.

Con tre ori al collo, Kathrin torna al 4 di coppia per le Olimpiadi di Atene del 2004, indubbiamente agevolata dal fatto che sia la prova che più di ogni altra, negli anni e nelle grandi manifestazioni, abbia sorriso alle imbarcazioni della Germania. Anche se, ai Mondiali del 2003 all’Idroscalo di Milano, Australia e Bielorussia sono state capaci di battere le tedesche. E all’Olympiako Kopelatodramio Skhoinia le previsioni vengono rispettate, in pieno. Meike Evers, Manuela Lutze e Kerstin El-Qalqili, oltre ovviamente alla Boron, compongono il quartetto che passa agevolmente lo scoglio delle batterie di apertura della competizione, vincendo la seconda in 6’16″49, con l’armo della Gran Bretagna, sul quale remano Alison Mowbray, Debbie Flood, Frances Houghton e Rebecca Romero, che nella prima arriva al traguardo fissando il miglior cronometro in 6’15″60. E con Australia, Russia, Stati Uniti ed Ucraina ad accedere alla finale passando per le forche caudine delle regate di ripescaggio, il 22 agosto, alle ore 9:30 locali, Germania e Gran Bretagna sono pronte a darsi battaglia per la conquista della gloria olimpica. Che, infine, conforta gli sforzi della Boron e delle sue compagne, che transitano in testa al passaggio dei 500 (+ 1″18), 1000 (+ 2″73) e 1500 metri (+ 2″99), per tagliare poi il traguardo con un margine definitivo di 1″97, che vale a Kathrin il quarto oro in quattro edizioni consecutive dei Giochi.

Ci sarebbe ancora tempo per un ultimo appuntamento di prestigio, ovvero le Olimpiadi di Pechino del 2008, ma in quelle lontane acque d’Oriente la Boron deve accontentarsi del bronzo, sempre nel 4 di coppia. Poco importa, il suo posto, tra le leggende del canottaggio, è già ampiamente garantito.

IL “LAMPO DI GLORIA” DI YULIA NESTSIARENKA AI GIOCHI DI ATENE 2004

Yulia Nestsiarenka festeggia l’oro di Atene 2004 – da surtoolimpico.pom.br

articolo di Giovanni Manenti

Negli sport individuali, non è raro il caso di atleti che ottengono il loro pressoché unico miglior risultato dell’intera attività agonistica proprio nell’occasione da tutti sognata, ovvero ad un’Olimpiade o ad un Mondiale, ma quanto accaduto alla protagonista della nostra storia odierna ha qualcosa dell’incredibile.

Nata il 15 giugno 1979 a Brest, città di oltre 300mila abitanti della Bielorussia e posta al confine con la Polonia, Yulia Bartsevich quale nome di battesimo, ma conosciuta nel panorama internazionale dell’atletica leggera come Nestsiarenka con il cognome da sposata, vive il suo “giorno dei giorni” in occasione dei Giochi di Atene 2004.

Tesserata per la Dynamo Brest, la Bartsevich si mette in evidenza, non ancora 19enne, ai campionati studenteschi di Minsk, allorché si impone sia sui 100 che sui 200 metri con i rispettivi tempi di 12”35 e 24”96, mentre ai campionati nazionali assoluti di inizio agosto 2000 che si svolgono nella sua città natale non va oltre il terzo posto nella finale dei 100 pur migliorandosi in 11”87.

Iscritta ai Campionati Europei under23 che si svolgono a metà luglio 2001 ad Amsterdam, la Bartsevich raggiunge la finale di 100 metri, concludendo non meglio che sesta in 11”80 – dopo essersi piazzata seconda ai campionati nazionali in 11”54 – nella gara vinta dalla tedesca Sina Schielke in 11”52, per poi cogliere viceversa l’argento con la staffetta 4×100, con le bielorusse precedute (44”31 a 44”64) dal quartetto britannico.

L’anno seguente la 23enne Yulia compie un indubbio “salto di qualità”, sia aggiudicandosi il suo primo titolo nazionale che realizzando, nell’occasione, un sensibile miglioramento cronometrico tagliando il traguardo in 11”29, ancorché ciò non le consenta di qualificarsi per la finale alla rassegna continentale di Monaco di Baviera di inizio agosto 2002.

Dopo essersi, difatti, piazzata seconda in batteria alle spalle della spagnola di origine nigeriana Glory Alozie pur essendo entrambe accreditate del medesimo tempo di 11”42, l’aver più meno corso sullo stesso livello (11”44) in semifinale non è sufficiente all’allora Bartsevich per centrare l’atto conclusivo, sfuggitole per soli 0”02 centesimi, viceversa raggiunto con la staffetta 4×100, pur se il quartetto bielorusso conclude la finale all’ottavo ed ultimo posto in 44”34.

Per poter ambire a piazzamenti di prestigio, occorre in campo femminile scendere sotto la “barriera degli 11” netti” (un po’ come, fra i maschi, sotto i 10” netti), impresa al momento non alla portata della nel frattempo divenuta Nestsiarenka, che nel 2003 fa registrare quale miglior risultato stagionale 11”45 sulla prova individuale, ancorché la staffetta 4×100 centri ancora la qualificazione alla finale dei Mondiali di Parigi Saint-Denis classificandosi settima (solo per la squalifica della Giamaica) pur con un sensibile miglioramento cronometrico di 43”47, a soli 0”02 centesimi dal quartetto belga.

Con il 107esimo tempo stagionale del 2003 – che sarebbe potuto essere il 53esimo se avesse replicato l’11”29 dell’anno precedente –, capirete pertanto quanto potesse essere difficile pronosticare anche solo la qualificazione per la finale olimpica della 25enne Yulia in occasione dei Giochi di Atene 2004, pur avendo la bielorussa iniziato in modo convincente la stagione, vale a dire centrando in 7”12 il podio sui 60 metri alla rassegna iridata indoor di Budapest, nella gara vinta (7”08 a 7”12) dall’americana Gail Devers sulla belga Kim Gevaert, quest’ultima argento sia sui 100 che sui 200 metri agli Europei 2002.

Apriamo a questo punto una parentesi sullo stato dello sprint Usa, la cui stella del periodo era la “tristemente famosaMarion Jones – vincitrice di 3 ori e due bronzi a Sydney 2000 – e che, all’epoca ancora attiva, aveva saltato la stagione 2003 per dare alla luce un figlio e che ai Trials di metà luglio a Sacramento si era qualificata solo per il salto in lungo.

Parimenti, la campionessa mondiale di Parigi 2003, vale a dire Torri Edwards, era successivamente incappata in un controllo antidoping positivo, ed era pertanto sospesa dall’attività, così che a staccare il biglietto per Atene erano state LaTasha Colander, a precedere (10”97 ad 11”10) la non ancora 21enne Lauryn Williams e “l’eterna” Devers, alla sua quarta partecipazione olimpica.

Di contro, la Giamaica – finita la gloriosa epoca di Merlene Ottey, Grace Jackson e Juliet Cuthbert, pur senza aver mai vinto un oro olimpico – presenta un trio ringiovanito, composto dalla 20enne Sherone Simpson, dalla 22enne Veronica Campbell e dalla 23enne Aleen Bailey, tutte di ottime prospettive, ma non ancora all’apice delle rispettive carriere.

Certo, tutto ciò serve a delineare il quadro delle avversarie della 25enne bielorussa allorché si presenta il mattino del 20 agosto 2004 sulla pista dello “Stadio Olimpico” della capitale ellenica per le batterie dei 100 piani, ma non certo a giustificare una sua possibile aspirazione al podio, ancorché già in stagione abbia corso la distanza in 11”02 il 23 giugno ed in 11”06 ad inizio luglio.

Ad ogni buon conto, allo sparo dello starter tutti i discorsi e le previsioni cadono nel vuoto, conta solo la pista e sicuramente la Nestsiarenka impressiona sin dalle prime battute, essendo l’unica a scendere sotto gli 11” netti – oltretutto per la prima volta in carriera – aggiudicandosi la seconda serie in 10”94 (pari al primato bielorusso), per poi replicare al pomeriggio fermando i cronometri sul 10”99.

Errato dosaggio di energie o consapevolezza della propria condizione fisica, è il dubbio che si pongono gli addetti ai lavori in attesa dell’esito delle semifinali che vanno in scena alle ore 20:20 del 21 agosto, con la bielorussa inserita nella prima serie assieme alla Campbell, alla Devers ed alla francese Christine Arron, campionessa mondiale l’anno prima a Parigi con la staffetta 4×100.

Un test sicuramente quanto mai significativo, che la Nestsiarenka lo risolve in scioltezza a suo favore, avendo la meglio al fotofinish (10”92 a 10”93) sulla Campbell – migliorando così il suo fresco primato nazionale –, con ad accedere alla finale anche la bulgara Ivet Lalova – che il 19 giugno a Plovdiv aveva corso in 10”77, suo “personal best” in carriera – e la bahamense Debbie Ferguson, mentre vengono eliminate Arron e Devers.

La risposta Usa non si fa attendere, visto che la seconda serie se l’aggiudica la minuscola (1,60 metri per 58kg.) Williams, a precedere (11”01 ad 11”03) la Simpson, con il quadro delle finaliste completato dalla Bailey e dalla Colander, ma con tempi che non danno loro grandi chances in vista dell’atto conclusivo.

Due corporature diametralmente opposte, compatta ed esplosiva la giovane americana e ben più longilinea (1,76 metri per 62kg.) la bielorussa, mentre la Campbell (1,68 metri per 58kg.) rappresenta “una via di mezzo” fra le due rivali, con il sorteggio delle corsie a prevedere la giamaicana in terza, con la Williams alla sua destra e la Nestsiarenka in sesta, allorché le otto finaliste si portano sui blocchi di partenza alle ore 22:55.

L’arrivo vincente della Nestsiarenka – da pinterest.it

Come prevedibile, ad uscire meglio dai blocchi è la 21enne della Pennsylvania, tallonata dalla Campbell, mentre la Nestsiarenka mette in funzione le sue lunghe leve nella seconda metà di gara, con una progressione che la porta ad affiancare le sue due avversarie e quindi sopravanzarle concludendo per la quarta volta nell’arco di due giorni sotto gli 11” netti, fermando il cronometro a 10”93 che le vale la “gloria olimpica”, mentre la Campbell non riesce a recuperare (10”96 a 10”97) sulla Williams, che così si aggiudica l’argento.

Sicuramente i quattro tempi – 10”94, 10”99, 10”92 e 10”93 – stabiliti sulla pista ateniese legittimano ampiamente l’affermazione della bielorussa, tanto più che anche otto anni prima ad Atlanta la Devers si era imposta in 10”94 (non facendo testo il 10”76 della Jones a Sydney che le verrà poi cancellato), pur se nelle successive edizioni si andrà ben sotto tale limite.

Magari, ciò che risulta più strano è il fatto che, nel prosieguo della sua carriera, la Nestsiarenka – a parte l’aver collezionato due medaglie di bronzo con la staffetta 4×100 ai Mondiali di Helsinki 2005 ed agli Europei di Goteborg 2006 – non solo non sia più salita sul podio di una gara individuale, ma non abbia neppure corso la distanza nei fatidici “meno 11” netti.

L’importante, e crediamo che la prima ad essere d’accordo non possa che essere lei, è esserci riuscitanel posto giusto al momento giusto…”, che ne dite?     

PETE SAMPRAS, L’IMPERATORE SULLA TERRA DI ROMA AGLI INTERNAZIONALI DEL 1994

articolo di Nicola Pucci

Solo a citarne il nome e a leggerne il palmares, viene la pelle d’oca quando si parla di Pete Sampras. Perché se è vero che solo l’avvento dei big-three, ovvero Federer, Nadal e Djokovic, lo ha privato del record di tornei dello Slam messi in bacheca, ben 14, quale corollario di 64 vittorie sul circuito, a cui aggiungere addirittura 286 settimane da numero 1 del mondo, stiamo ricordando un campione che se non viene elevato al rango di più grande di sempre, davvero poco ci manca.

Eppure… eppure c’è qualche riserva sul conto di un fenomeno con la “f” maiuscola, non presunto tale, ovvero il suo pedigree sulla terra battuta, superficie che non lo ha mai visto andare oltre una semifinale al Roland-Garros (1996), lì dove invece lo stesso Federer ha almeno vinto, nel 2009, sommando pure altre quattro finali, tutto perse con Nadal. Sampras, infatti, sul “rosso” vanta solo tre titoli, un primo a Kitzbuhel nel 1992, quando sconfisse in finale l’argentino Alberto Mancini, ed un terzo ad Atlanta nel 1998, superando all’atto decisivo l’australiano Jason Stoltenberg. Nel mezzo, e parliamo del maggio 1994, ecco invece l’exploit su terra più prestigioso, nel magnifico scenario del Foro Italico in Roma.

In effetti la stagione 1994 è iniziata col piede giusto per il campione americano, trionfatore a gennaio agli Australian Open in finale contro Todd Martin, 7-6 6-4 6-4, e proseguita con la doppietta ad Indian Wells e Miami e quella nella trasferta in Giappone, a Osaka e Tokyo. E se Wimbledon ed Open Usa sembrano poter essere suo territorio di conquista preferito, in previsione di un possibile Grande Slam è necessario spezzare il sortilegio Roland-Garros, ergo passando per una buona preparazione sulla terra. E Roma rappresenta davvero il banco di prova più autorevole prima dell’appuntamento parigino.

Sampras si presenta a Roma per la quarta volta in carriera, dopo aver perso al secondo turno nel 1991 (2-6 6-4 5-7 con il “mago” Fabrice Santoro), aver raggiunto i quarti nel 1992 (estromesso da Petr Korda) ed essersi migliorato nel 1993 (semifinalista contro Goran Ivanisevic, che lo batte in due set 6-7 2-6). E stavolta, ispirato come non mai su una superficie non troppo congeniale al suo pur sterminato talento, recita da assoluto protagonista.

Il tabellone romano, ovviamente, accredita Sampras della prima testa di serie, seguito nell’elenco dei favoriti dal tedesco Michael Stich, da quel Jim Courier, ex-numero 1 del mondo, che ha dominato le due ultime edizioni battendo, rispettivamente, Carlos Costa e proprio Ivanisevic, con il croato che si merita la quarta testa di serie. E se Chang, Medvedev, Muster e Becker completano i primi otto del seeding, le chance italiane di poter competere se non per il successo almeno per un buon piazzamento sono davvero ridotte. Con Renzo Furlan, numero 37 del mondo, ed Andrea Gaudenzi, numero 45, che puntano a far meglio dell’anno precedente, quando l’uno si arrese all’esordio proprio a Sampras, l’altro uscì di scena al secondo turno contro Chang.

Sampras entra in gioco contro Aaron Krickstein, numero 30 del mondo, imponendosi in due set, 6-1 7-6, per poi vedersi impegnare al terzo set dallo spagnolo Alex Corretja, numero 39 del ranking, infine sconfitto 6-3 3-6 6-3. E se “Pistol Pete” è fedele al suo rango superando anche il russo Andrej Chesnokov, numero 33 del mondo, 7-6 6-3, ecco che ai quarti di finale si prospetta la sfida proprio contro Gaudenzi, autore di un percorso senza macchie che lo ha visto eliminare in due set Agenor e Siemerink ed approfittare al terzo turno del ritiro del “collega di scuderia” Tomas Muster (4-1 al primo set), con cui condivide l’allenatore, Ronnie Leitgeb.

A questo stadio della competizione giungono anche Stich, Courier ed Ivanisevic, oltre a Becker, mentre sono prematuramente usciti di scena, Chang, battuto dall’olandese Eltingh, Medvedev, dominato dal ceco Slava Dosedel, numero 51 del mondo, ed appunto Muster, e lo stesso Dosedel dà una grossa mano a Sampras, eliminando in rimonta anche il detentore del titolo, 1-6 6-3 6-4, prima di fermarsi proprio contro Pete, che dopo aver sconfitto Gaudenzi, 6-3 7-5, si guadagna il posto in finale con un netto 6-1 6-2 contro il tennista di Prerov.

Nella parte bassa del tabellone un infortunio a Stich nega al pubblico del Foro Italico l’atteso derby tedesco dei quarti contro Becker, ed il campione di Leimen, alla ricerca del suo primo titolo in carriera sul “rosso“, coglie al volo l’occasione di giungere a sua volta all’atto decisivo del torneo, venendo a capo in semifinale della resistenza di Ivanisevic, battuto in due set, 6-2 7-5.

E così il 15 maggio 1994, in una giornata di splendido sole e con spalti gremiti, Sampras e Becker, i due re di Wimbledon, si sfidano per il titolo degli Internazionali d’Italia che darebbe lustro a due carriere già leggendarie, entrambi orientati a non derogare dal loro credo tecnico, serve-and-volley e che vinca il migliore.

In verità, non c’è davvero partita, Sampras regala al pubblico romano la miglior esibizione in carriera su terra battuta, come avrà modo di dire Becker in conferenza stampa “penso sia invincibile adesso, sta volando in campo e ha giocato come nessuno aveva mai fatto prima contro di me. Sta giocando come il migliore tra i migliori“, e più che una sfida a due, si tratta di una vera e propria esecuzione tennistica.

Finisce 6-1 6-2 6-2, correva l’anno 1994, e fu la volta in cui Pete Sampras, sontuoso come non mai sulla terra, si meritò il titolo di “imperatore di Roma”.

NEL 1999 IL PALMEIRAS SFATA IL TABU’ DELLA COPA LIBERTADORES

Il Palmeiras campione nel 1999 – da palmeiras.com.br

articolo di Giovanni Manenti

Se si analizzano le ultime edizioni di questo inizio di seconda decade del terzo millennio della Copa Libertadores – equivalente sudamericano della Champions League europea –, può sembrare un’appendice del campionato brasiliano, visto che dal 2019 al 2023 si sono affermate solo formazioni di quel paese, con altresì tre finali (2020-’22) consecutive a rappresentare una sorta di derby.

Una circostanza che ha consentito ai club brasiliani di accorciare decisamente le distanze dai rivali argentini quanto a successi nel torneo, ora distanti (25 a 23) appena due vittorie, ma in passato era tutto molto diverso, un po’ per la forza anche dei due “storici” club uruguaiani, ovvero Penarol e Nacional Montevideo – che vantano 5 e 3 affermazioni a testa, con altrettante apparizioni in finale –, ed anche per la nota disorganizzazione del futebol, che non prevedeva un campionato nazionale a girone unico.

Difatti, dopo i due successi (1962-’63) consecutivi del “leggendario” Santos di “O Rey” Pelé – e di Gilmar, Mauro, Zito, Coutinho e Pepe –, occorre attendere ben 15 anni prima che nel 1976 il trofeo torni in Brasile grazie al Cruzeiro della stella Jairzinho, per poi – dopo due vittorie estemporanee di Flamengo e Gremio – essere da inizio anni ’90 che in Sudamerica “la musica è cambiata” sino ai giorni nostri.

E, fra le formazioni ad essersi messe maggiormente in evidenza in questo inizio di nuovo secolo, vi è indubbiamente il Palmeiras che, imponendosi nelle edizioni 2021 e 2021, risulta attualmente l’ultima ad essere riuscita a bissare l’impresa dell’anno precedente, che, fra i club verde-oro, aveva compiuto, oltre proprio al Santos, solo il San Paolo, facendo sua la Copa nel biennio 1992-’93, vale a dire esattamente 30 anni dopo Pelé & Co.

Fondato a fine agosto 1914 da immigrati italiani dopo che avevano svolto una tournée in Sudamerica il Torino e la Pro Vercelli, la “Sociedade Esportiva Palmeiras” – successivamente divenuta polisportiva con sezioni di basket, hockey su pista e volley, oltre al futsal – si rende protagonista per i suoi primi 50 anni di storia pressoché esclusivamente a livello statale, aggiudicandosi 13 edizioni del Campionato Paulista tra il 1920 ed il 1959, oltre a due tornei Rio-San Paolo nel 1933 e 1951.

Proprio l’affermazione del 1959 consente al Palmeiras di prendere parte alla seconda edizione della Taça Brasil – ovvero l’antesignana del campionato brasiliano che nasce solo nel 1969 –, alla quale prendono parte le vincitrici dei singoli tornei statali e che i “Verdao” si aggiudicano stracciando letteralmente (3-1 ed 8-2) il Fortaleza nella doppia finale, così da acquisire il diritto a rappresentare il Brasile nella seconda edizione della Copa Libertadores, che aveva visto nel torneo inaugurale l’affermazione del Penarol.

All’epoca, in Sudamerica come nel Vecchio Continente, la manifestazione era riservata solo ai club campioni nei rispettivi paesi di appartenenza e, considerate il minor numero di nazioni d’oltreoceano, si risolveva in pochi incontri, con il Palmeiras capace comunque di raggiungere la finale dopo aver eliminato (2-0 ed 1-0) gli argentini dell’Independiente e quindi (2-2 e 4-1) i colombiani del Santa Fe.

All’atto conclusivo, però, lo scoglio costituito dai campioni in carica uruguaiani si rivela troppo arduo, ancorché nella gara di andata a Montevideo la sfida venga decisa solo da una rete di Spencer nel finale, mentre al ritorno una rete di Sacia in apertura chiude il discorso, restando al Palmeiras solo la consolazione di evitare la sconfitta grazie al punto di Nardo a meno di un quarto d’ora dal termine.

Eppure, stiamo parlando di una formazione in grado di schierare giocatori di valore quali il portiere Valdir, il “leggendario” capitano Djalma Santos, Zequinha, il talentuoso Julinho, rientrato in patria dopo l’esperienza alla Fiorentina, così come Humberto Tozzi dopo le stagioni alla Lazio, oltre a Chinesinho che, al contrario, il viaggio nel Belpaese lo fa a fine settembre 1962.

Quantomeno con il privilegio di essere stata la prima squadra brasiliana ad aver disputato la finale di Libertadores, così da aver “indicato la strada” al Santos per le due affermazioni nel biennio successivo, il Palmeiras ci riprova nell’edizione 1968, dopo essersi aggiudicato la Taça Brasil 1967 superando 2-0 il Nautico allo spareggio, dopo che i primi due incontri si erano conclusi (3-1 ed 1-2) con una vittoria per parte, non valendo in Sudamerica la differenza-reti quale elemento decisivo.

Un regolamento che avrà la sua fondamentale importanza nel percorso dei brasiliani in un torneo ora ben più complicato visto l’allargamento a due squadre per nazione, pur con la discutibile formula di far entrare in gioco i campioni in carica solo dalle semifinali, ma tant’è, ed, in ogni caso, un Palmeiras di caratura tecnica largamente inferiore a quello di sette anni prima (con il solo estremo difensore Valdir unico reduce) riesce a raggiungere l’atto conclusivo, trascinato dalla vena realizzativa del centravanti Tupazinho.

Nella sua ultima stagione al Palmeiras – con cui vanta un bottino di 122 reti nelle 231 gare disputate –, l’attaccante si laurea capocannoniere della manifestazione con 11 centri, ivi compresi quelli che consentono in semifinale di “vendicare” (1-0 e 2-1) la sconfitta subita contro il Penarol nella precedente partecipazione al torneo, così da affrontare in finale gli argentini dell’Estudiantes de La Plata che si impongono 2-1 nella gara di andata.

Al ritorno al “Pacaembu” di San Paolo, Tupazinho è ancora decisivo, con una doppietta ad annullare la rete del temporaneo pareggio di Veron, per poi toccare a Rinaldo siglare il punto del definitivo 3-1 che però vale solo lo spareggio, disputato sul neutro dell’“Estadio Centenario” di Montevideo, dove i platensi si impongono per 2-0 quale primo dei loro tre successi consecutivi.

Dopo altre tre partecipazioni ad inizio anni ’70 – con miglior piazzamento l’eliminazione nella seconda fase a gironi nel 1971 –, il Palmeiras deve attendere 20 anni prima di ripresentarsi ai nastri di partenza del torneo per un biennio (1993-’94) consecutivo che lo vede in entrambe le edizioni eliminato agli ottavi, per poi rappresentare nuovamente il Brasile nel 1999 assieme al Corinthians.

Importante novità per il club paulista l’avvicendamento in panchina avendo affidato la guida tecnica al 50enne Luiz Felipe Scolari, che, pronti-via, porta i “Verdao” a conquistare il loro primo trofeo internazionale, aggiudicandosi l’edizione 1998 della Copa Mercosul, in una finale tutta verde-oro con il Cruzeiro, vinta 1-0 allo spareggio (rete del paraguaiano Arce) sul Cruzeiro e dopo che, anche stavolta, il Palmeiras aveva risposto con un 3-1 alla sconfitta per 1-2 dell’andata.

Inserito nel Gruppo C assieme al Cortinthians ed alle due rappresentanti paraguaiane Cerro Porteno ed Olimpia Asuncion, le due formazioni brasiliane dominano il girone, vincendo i rispettivi incontri casalinghi per quanto concerne gli scontri diretti, per poi risultare determinante il pari interno del Palmeiras con l’Olimpia per decretare il primo posto a favore dei “Timao, per un conseguente abbinamento negli ottavi con il Vasco da Gama, qualificato d’ufficio quale detentore del trofeo.

Dopo l’1-1 della gara di andata, sono in molti a credere che anche stavolta l’avventura dei “Verdao” debba concludersi agli ottavi con la trasferta al “Sao Januario” di Rio de Janeiro, ma dopo il vantaggio iniziale di Luizao per i padroni di casa, il Palmeiras reagisce e, chiuso il primo tempo sul 2-2, fa suo il match per 4-2 grazie alla doppietta di un 21enne Alex ed alla rete definitiva di Arce.

Con il Corinthians ad essersi viceversa sbarazzato con facilità (1-1 e 5-2) dei boliviani del Jorge Wilstermann, ecco che gli accoppiamenti dei quarti propongono un secondo scontro fratricida, essendo all’epoca espressa volontà della CONMEBOL (Confederacion Sudamericana de Futbol) evitare che la finale si disputi tra due squadre della stessa nazione, tanto che un altro abbinamento pone di fronte le argentine River Plate e Velez Sarsfield, oltre a Estudiantes de Merida-Cerro Porteno e Deportivo Cali-Bella Vista.

La gara di andata svoltasi al “Morumbi” di San Paolo, vede la formazione di Scolari imporsi per 2-0 (di Oseas e Rogerio le reti), salvo subire identica sconfitta al ritorno, così che la decisione per l’approdo alle semifinali viene demandata ai calci di rigore con i giocatori del Palmeiras a dimostrarsi infallibili dal dischetto rispetto ai due errori dei loro avversari.

A differenza del club paulista, il River Plate difende il 2-0 dell’andata al “Monumental”, limitando a 0-1 la sconfitta sul campo del Velez, così come raggiungono le semifinali anche il Deportivo Cali (2-1 ed 1-1) sul Bella Vista ed il Cerro Porteno, che compie l’impresa di ribaltare al ritorno lo 0-3 dell’andata in Bolivia con un 4-0 su cui mette il sigillo il rigore trasformato da Danilo Aceval a 3’ dal termine.

Semifinali che vanno in scena il 19 e 26 maggio 1999, con il Palmeiras a dover affrontare il River Plate nella gara di andata al “Monumental” di Buenos Aires, limitando i danni allo 0-1 siglato da Sergio Berti in avvio di ripresa di un match caratterizzato dalle espulsioni nel finale dapprima di Junior Baiano e quindi di Leonardo Astrada, come si conviene quando si trovano di fronte argentini e brasiliani.

Tutt’altra musica al ritorno nella storica “Palestra Italia”, con Alex sugli scudi e punteggio già ribaltato nei primi 20’ con a segno il fantasista ed il difensore centrale Roque Junior, prima che a chiudere definitivamente i conti per il 3-0 conclusivo sia ancora Alex di sinistro a 3’ dal 90’, così da certificare la terza finale di Libertadores per il Palmeiras, avversario il sempre ostico Deportivo Cali, che dopo “aver scherzato” all’andata (4-0) con il Cerro Porteno, limita i danni al ritorno ad Asuncion con un’ininfluente sconfitta per 2-3 avendo messo al sicuro la qualificazione con la rete del provvisorio vantaggio di Candelo.

Brasile contro Colombia, dunque, con la gara di andata in programma il 2 giugno 1999 all’“Estadio Olimpico Pascual Guerrero” della metropoli colombiana, sfida decisa a favore dei padroni di casa da una rete di Victor Bonilla in chiusura di prima frazione di gioco, grazie ad un preciso colpo di testa su cross dal fondo, con il ritorno a disputarsi a due settimane di distanza all’“Estadio Palestra Italia” di San Paolo.

Nonostante la limitata capienza della struttura, i dirigenti del Palmeiras optano per un ambiente più raccolto per favorire la propria squadra, visto che il 16 giugno 1999 i 32mila posti a disposizione sono completamente esauriti, per un evento che in casa Palmeiras è atteso da quasi 40 anni.

Formazione colombiana che però regge bene il colpo, con il match a sbloccarsi solo al 65’, allorché l’arbitro paraguaiano Ubaldo Aquino decreta un calcio di rigore a favore dei padroni di casa per un fallo di mano, con a portarsi sul dischetto Evair (con trascorsi in Italia nelle file dell’Atalanta) che non fallisce la trasformazione, rimettendo le sorti del doppio confronto su di un piano di parità.

Gioia di breve durata, peraltro, per i supporters paulisti, poiché trascorrono appena 5’ ed a beneficiare stavolta del tiro dagli 11 metri sono gli ospiti per un intervento falloso di Junior Baiano, con il capitano Martin Zapata a mantenere la giusta concentrazione per spiazzare Marcos ed indirizzare nuovamente il trofeo verso la Colombia, con soli 20’ ancora da giocare.

A “rimettere le cose a posto” per il Palmeiras pensa Oseas, che devia sotto misura un tiro cross di Junior dalla sinistra, così che al fischio finale, essendo il punteggio globale fra le due gare (2-2) in parità, a decidere l’assegnazione del trofeo sono i calci di rigore, dopo le “immancabili” espulsioni, una per parte, con a raggiungere anzitempo gli spogliatoi dapprima Andres Mosquera e quindi Evair.

A portarsi per primo sul dischetto per i brasiliani è Zinho, ma la sua conclusione colpisce la traversa, mentre va a segno l’estremo difensore Rafael Dudamel per il Deportivo, così come fanno nelle due serie successive, Junior Baiano e Roque Junior da una parte ed Hernan Gaviria e Mario Yepes dall’altra, con il quarto turno a vedere Rogerio trasformare, mentre la conclusione di sinistro di Gerardo Bedoya si stampa sul palo interno alla sinistra di Marcos ed esce.

Con l’ultimo pallone a disposizione prima di andare eventualmente ad oltranza, Euller spiazza Dudamel, così che la pressione è ora tutta sulle spalle di Martin Zapata, il quale manda Marcos da una parte e la palla dall’altra, se non fosse che la sfera termina la sua corsa a fil di palo e quindi sul fondo, per la gioia irrefrenabile del pubblico paulista e, di contro, la cocente delusione dei colombiani, giunti davvero ad un passo dalla conquista del trofeo.

Palmeiras che raggiunge la finale anche l’anno seguente, con il bis ad essergli negato, anche stavolta con conclusione ai calci di rigore, dal Boca Juniors di Carlos Bianchi che inaugura la sua serie di tre affermazioni (2000-’01 e 2003) in un quadriennio, per poi essere a sua volta sconfitto nel 2004.

Per i “Verdao l’appuntamento per la doppietta è soltanto rinviato, dopo tutto dovranno attendere “appena” 20 anni…