NEL 1999 IL PALMEIRAS SFATA IL TABU’ DELLA COPA LIBERTADORES

Il Palmeiras campione nel 1999 – da palmeiras.com.br

articolo di Giovanni Manenti

Se si analizzano le ultime edizioni di questo inizio di seconda decade del terzo millennio della Copa Libertadores – equivalente sudamericano della Champions League europea –, può sembrare un’appendice del campionato brasiliano, visto che dal 2019 al 2023 si sono affermate solo formazioni di quel paese, con altresì tre finali (2020-’22) consecutive a rappresentare una sorta di derby.

Una circostanza che ha consentito ai club brasiliani di accorciare decisamente le distanze dai rivali argentini quanto a successi nel torneo, ora distanti (25 a 23) appena due vittorie, ma in passato era tutto molto diverso, un po’ per la forza anche dei due “storici” club uruguaiani, ovvero Penarol e Nacional Montevideo – che vantano 5 e 3 affermazioni a testa, con altrettante apparizioni in finale –, ed anche per la nota disorganizzazione del futebol, che non prevedeva un campionato nazionale a girone unico.

Difatti, dopo i due successi (1962-’63) consecutivi del “leggendario” Santos di “O Rey” Pelé – e di Gilmar, Mauro, Zito, Coutinho e Pepe –, occorre attendere ben 15 anni prima che nel 1976 il trofeo torni in Brasile grazie al Cruzeiro della stella Jairzinho, per poi – dopo due vittorie estemporanee di Flamengo e Gremio – essere da inizio anni ’90 che in Sudamerica “la musica è cambiata” sino ai giorni nostri.

E, fra le formazioni ad essersi messe maggiormente in evidenza in questo inizio di nuovo secolo, vi è indubbiamente il Palmeiras che, imponendosi nelle edizioni 2021 e 2021, risulta attualmente l’ultima ad essere riuscita a bissare l’impresa dell’anno precedente, che, fra i club verde-oro, aveva compiuto, oltre proprio al Santos, solo il San Paolo, facendo sua la Copa nel biennio 1992-’93, vale a dire esattamente 30 anni dopo Pelé & Co.

Fondato a fine agosto 1914 da immigrati italiani dopo che avevano svolto una tournée in Sudamerica il Torino e la Pro Vercelli, la “Sociedade Esportiva Palmeiras” – successivamente divenuta polisportiva con sezioni di basket, hockey su pista e volley, oltre al futsal – si rende protagonista per i suoi primi 50 anni di storia pressoché esclusivamente a livello statale, aggiudicandosi 13 edizioni del Campionato Paulista tra il 1920 ed il 1959, oltre a due tornei Rio-San Paolo nel 1933 e 1951.

Proprio l’affermazione del 1959 consente al Palmeiras di prendere parte alla seconda edizione della Taça Brasil – ovvero l’antesignana del campionato brasiliano che nasce solo nel 1969 –, alla quale prendono parte le vincitrici dei singoli tornei statali e che i “Verdao” si aggiudicano stracciando letteralmente (3-1 ed 8-2) il Fortaleza nella doppia finale, così da acquisire il diritto a rappresentare il Brasile nella seconda edizione della Copa Libertadores, che aveva visto nel torneo inaugurale l’affermazione del Penarol.

All’epoca, in Sudamerica come nel Vecchio Continente, la manifestazione era riservata solo ai club campioni nei rispettivi paesi di appartenenza e, considerate il minor numero di nazioni d’oltreoceano, si risolveva in pochi incontri, con il Palmeiras capace comunque di raggiungere la finale dopo aver eliminato (2-0 ed 1-0) gli argentini dell’Independiente e quindi (2-2 e 4-1) i colombiani del Santa Fe.

All’atto conclusivo, però, lo scoglio costituito dai campioni in carica uruguaiani si rivela troppo arduo, ancorché nella gara di andata a Montevideo la sfida venga decisa solo da una rete di Spencer nel finale, mentre al ritorno una rete di Sacia in apertura chiude il discorso, restando al Palmeiras solo la consolazione di evitare la sconfitta grazie al punto di Nardo a meno di un quarto d’ora dal termine.

Eppure, stiamo parlando di una formazione in grado di schierare giocatori di valore quali il portiere Valdir, il “leggendario” capitano Djalma Santos, Zequinha, il talentuoso Julinho, rientrato in patria dopo l’esperienza alla Fiorentina, così come Humberto Tozzi dopo le stagioni alla Lazio, oltre a Chinesinho che, al contrario, il viaggio nel Belpaese lo fa a fine settembre 1962.

Quantomeno con il privilegio di essere stata la prima squadra brasiliana ad aver disputato la finale di Libertadores, così da aver “indicato la strada” al Santos per le due affermazioni nel biennio successivo, il Palmeiras ci riprova nell’edizione 1968, dopo essersi aggiudicato la Taça Brasil 1967 superando 2-0 il Nautico allo spareggio, dopo che i primi due incontri si erano conclusi (3-1 ed 1-2) con una vittoria per parte, non valendo in Sudamerica la differenza-reti quale elemento decisivo.

Un regolamento che avrà la sua fondamentale importanza nel percorso dei brasiliani in un torneo ora ben più complicato visto l’allargamento a due squadre per nazione, pur con la discutibile formula di far entrare in gioco i campioni in carica solo dalle semifinali, ma tant’è, ed, in ogni caso, un Palmeiras di caratura tecnica largamente inferiore a quello di sette anni prima (con il solo estremo difensore Valdir unico reduce) riesce a raggiungere l’atto conclusivo, trascinato dalla vena realizzativa del centravanti Tupazinho.

Nella sua ultima stagione al Palmeiras – con cui vanta un bottino di 122 reti nelle 231 gare disputate –, l’attaccante si laurea capocannoniere della manifestazione con 11 centri, ivi compresi quelli che consentono in semifinale di “vendicare” (1-0 e 2-1) la sconfitta subita contro il Penarol nella precedente partecipazione al torneo, così da affrontare in finale gli argentini dell’Estudiantes de La Plata che si impongono 2-1 nella gara di andata.

Al ritorno al “Pacaembu” di San Paolo, Tupazinho è ancora decisivo, con una doppietta ad annullare la rete del temporaneo pareggio di Veron, per poi toccare a Rinaldo siglare il punto del definitivo 3-1 che però vale solo lo spareggio, disputato sul neutro dell’“Estadio Centenario” di Montevideo, dove i platensi si impongono per 2-0 quale primo dei loro tre successi consecutivi.

Dopo altre tre partecipazioni ad inizio anni ’70 – con miglior piazzamento l’eliminazione nella seconda fase a gironi nel 1971 –, il Palmeiras deve attendere 20 anni prima di ripresentarsi ai nastri di partenza del torneo per un biennio (1993-’94) consecutivo che lo vede in entrambe le edizioni eliminato agli ottavi, per poi rappresentare nuovamente il Brasile nel 1999 assieme al Corinthians.

Importante novità per il club paulista l’avvicendamento in panchina avendo affidato la guida tecnica al 50enne Luiz Felipe Scolari, che, pronti-via, porta i “Verdao” a conquistare il loro primo trofeo internazionale, aggiudicandosi l’edizione 1998 della Copa Mercosul, in una finale tutta verde-oro con il Cruzeiro, vinta 1-0 allo spareggio (rete del paraguaiano Arce) sul Cruzeiro e dopo che, anche stavolta, il Palmeiras aveva risposto con un 3-1 alla sconfitta per 1-2 dell’andata.

Inserito nel Gruppo C assieme al Cortinthians ed alle due rappresentanti paraguaiane Cerro Porteno ed Olimpia Asuncion, le due formazioni brasiliane dominano il girone, vincendo i rispettivi incontri casalinghi per quanto concerne gli scontri diretti, per poi risultare determinante il pari interno del Palmeiras con l’Olimpia per decretare il primo posto a favore dei “Timao, per un conseguente abbinamento negli ottavi con il Vasco da Gama, qualificato d’ufficio quale detentore del trofeo.

Dopo l’1-1 della gara di andata, sono in molti a credere che anche stavolta l’avventura dei “Verdao” debba concludersi agli ottavi con la trasferta al “Sao Januario” di Rio de Janeiro, ma dopo il vantaggio iniziale di Luizao per i padroni di casa, il Palmeiras reagisce e, chiuso il primo tempo sul 2-2, fa suo il match per 4-2 grazie alla doppietta di un 21enne Alex ed alla rete definitiva di Arce.

Con il Corinthians ad essersi viceversa sbarazzato con facilità (1-1 e 5-2) dei boliviani del Jorge Wilstermann, ecco che gli accoppiamenti dei quarti propongono un secondo scontro fratricida, essendo all’epoca espressa volontà della CONMEBOL (Confederacion Sudamericana de Futbol) evitare che la finale si disputi tra due squadre della stessa nazione, tanto che un altro abbinamento pone di fronte le argentine River Plate e Velez Sarsfield, oltre a Estudiantes de Merida-Cerro Porteno e Deportivo Cali-Bella Vista.

La gara di andata svoltasi al “Morumbi” di San Paolo, vede la formazione di Scolari imporsi per 2-0 (di Oseas e Rogerio le reti), salvo subire identica sconfitta al ritorno, così che la decisione per l’approdo alle semifinali viene demandata ai calci di rigore con i giocatori del Palmeiras a dimostrarsi infallibili dal dischetto rispetto ai due errori dei loro avversari.

A differenza del club paulista, il River Plate difende il 2-0 dell’andata al “Monumental”, limitando a 0-1 la sconfitta sul campo del Velez, così come raggiungono le semifinali anche il Deportivo Cali (2-1 ed 1-1) sul Bella Vista ed il Cerro Porteno, che compie l’impresa di ribaltare al ritorno lo 0-3 dell’andata in Bolivia con un 4-0 su cui mette il sigillo il rigore trasformato da Danilo Aceval a 3’ dal termine.

Semifinali che vanno in scena il 19 e 26 maggio 1999, con il Palmeiras a dover affrontare il River Plate nella gara di andata al “Monumental” di Buenos Aires, limitando i danni allo 0-1 siglato da Sergio Berti in avvio di ripresa di un match caratterizzato dalle espulsioni nel finale dapprima di Junior Baiano e quindi di Leonardo Astrada, come si conviene quando si trovano di fronte argentini e brasiliani.

Tutt’altra musica al ritorno nella storica “Palestra Italia”, con Alex sugli scudi e punteggio già ribaltato nei primi 20’ con a segno il fantasista ed il difensore centrale Roque Junior, prima che a chiudere definitivamente i conti per il 3-0 conclusivo sia ancora Alex di sinistro a 3’ dal 90’, così da certificare la terza finale di Libertadores per il Palmeiras, avversario il sempre ostico Deportivo Cali, che dopo “aver scherzato” all’andata (4-0) con il Cerro Porteno, limita i danni al ritorno ad Asuncion con un’ininfluente sconfitta per 2-3 avendo messo al sicuro la qualificazione con la rete del provvisorio vantaggio di Candelo.

Brasile contro Colombia, dunque, con la gara di andata in programma il 2 giugno 1999 all’“Estadio Olimpico Pascual Guerrero” della metropoli colombiana, sfida decisa a favore dei padroni di casa da una rete di Victor Bonilla in chiusura di prima frazione di gioco, grazie ad un preciso colpo di testa su cross dal fondo, con il ritorno a disputarsi a due settimane di distanza all’“Estadio Palestra Italia” di San Paolo.

Nonostante la limitata capienza della struttura, i dirigenti del Palmeiras optano per un ambiente più raccolto per favorire la propria squadra, visto che il 16 giugno 1999 i 32mila posti a disposizione sono completamente esauriti, per un evento che in casa Palmeiras è atteso da quasi 40 anni.

Formazione colombiana che però regge bene il colpo, con il match a sbloccarsi solo al 65’, allorché l’arbitro paraguaiano Ubaldo Aquino decreta un calcio di rigore a favore dei padroni di casa per un fallo di mano, con a portarsi sul dischetto Evair (con trascorsi in Italia nelle file dell’Atalanta) che non fallisce la trasformazione, rimettendo le sorti del doppio confronto su di un piano di parità.

Gioia di breve durata, peraltro, per i supporters paulisti, poiché trascorrono appena 5’ ed a beneficiare stavolta del tiro dagli 11 metri sono gli ospiti per un intervento falloso di Junior Baiano, con il capitano Martin Zapata a mantenere la giusta concentrazione per spiazzare Marcos ed indirizzare nuovamente il trofeo verso la Colombia, con soli 20’ ancora da giocare.

A “rimettere le cose a posto” per il Palmeiras pensa Oseas, che devia sotto misura un tiro cross di Junior dalla sinistra, così che al fischio finale, essendo il punteggio globale fra le due gare (2-2) in parità, a decidere l’assegnazione del trofeo sono i calci di rigore, dopo le “immancabili” espulsioni, una per parte, con a raggiungere anzitempo gli spogliatoi dapprima Andres Mosquera e quindi Evair.

A portarsi per primo sul dischetto per i brasiliani è Zinho, ma la sua conclusione colpisce la traversa, mentre va a segno l’estremo difensore Rafael Dudamel per il Deportivo, così come fanno nelle due serie successive, Junior Baiano e Roque Junior da una parte ed Hernan Gaviria e Mario Yepes dall’altra, con il quarto turno a vedere Rogerio trasformare, mentre la conclusione di sinistro di Gerardo Bedoya si stampa sul palo interno alla sinistra di Marcos ed esce.

Con l’ultimo pallone a disposizione prima di andare eventualmente ad oltranza, Euller spiazza Dudamel, così che la pressione è ora tutta sulle spalle di Martin Zapata, il quale manda Marcos da una parte e la palla dall’altra, se non fosse che la sfera termina la sua corsa a fil di palo e quindi sul fondo, per la gioia irrefrenabile del pubblico paulista e, di contro, la cocente delusione dei colombiani, giunti davvero ad un passo dalla conquista del trofeo.

Palmeiras che raggiunge la finale anche l’anno seguente, con il bis ad essergli negato, anche stavolta con conclusione ai calci di rigore, dal Boca Juniors di Carlos Bianchi che inaugura la sua serie di tre affermazioni (2000-’01 e 2003) in un quadriennio, per poi essere a sua volta sconfitto nel 2004.

Per i “Verdao l’appuntamento per la doppietta è soltanto rinviato, dopo tutto dovranno attendere “appena” 20 anni…      

I “FAVOLOSI ANNI ‘70” DEL CESENA DEL PRESIDENTE DINO MANUZZI

Una formazione del Cesena nel 1975-’76 – da wikipedia.org

articolo di Giovanni Manenti

Da un punto di vista della fede calcistica, la Romagna è sempre stata considerata un “feudo bianconero”, intendendosi in questo caso il tifo dirottato verso la Juventus, anche perché nessun club della zona era mai riuscito ad andare oltre la Serie C, all’epoca considerata lega semiprofessionistica, se si esclude una fugace apparizione del Forlì nel torneo cadetto nella stagione 1946-’47, conclusa peraltro con l’immediata retrocessione.

Le cose cambiano nel corso degli anni ’60, allorché alla presidenza del Cesena – al tempo comune sotto la provincia di Forlì, poi divenuta Forlì-Cesena dal 1992 – sale Dino Manuzzi, un “uomo che si è fatto da solo”, imprenditore nel settore ortofrutticolo.

Le indubbie capacità imprenditoriali di un personaggio che non era neppure riuscito a conseguire la licenza elementare – tanto da essere nominato nel 1966 “Commendatore al Merito della Repubblica Italiana” –, fanno sì che a Manuzzi si rivolga l’allora sindaco di Cesena per pregarlo di rilevare la conduzione della società di calcio locale che verteva in una grave situazione finanziaria non riuscendo a far fronte ai costi del campionato di Serie C.

Categoria nella quale i bianconeri romagnoli erano saliti per la prima volta a conclusione della stagione 1960, allorché avevano dominato il Girone C della IV Serie con 53 punti, frutto di 22 vittorie, 9 pareggi e 3 sole sconfitte (55 reti fatte ed appena 21 subite), per poi disputare quattro tornei conclusi tutti a metà classifica.

Sino ad allora, al comando della società fondata nell’aprile 1940 era stato il conte Alberto Rognoni, che nelle ultime due stagioni aveva assunto il ruolo di commissario straordinario, al quale non pare vero di “passare la mano” ad un “cesenate doc” come Manuzzi, che nella città romagnola era nato il 14 ottobre 1907.

Sulla panchina bianconera siede un altro tecnico “fatto in casa”, ovvero Renato Lucchi che già aveva vestito la maglia del Cesena nel corso degli anni ’40, il quale replica nella stagione 1965 il nono posto della precedente, per poi lasciare il posto a Giuseppe Matassoni (cesenate pure lui), nel mentre Manuzzi inizia l’opera di rafforzamento dell’organico.

Ed i risultati non tardano ad arrivare, con il Cesena a concludere la stagione 1966 al quinto posto e la successiva al terzo, a 6 punti di distacco dal Perugia promosso, in un torneo che vede avvicendarsi in panchina Matassoni, Emilio Bonci e Cesare Meucci.

Uomo d’affari abituato ad andare per le spicce, Manuzzi non esita a modificare la guida tecnica “in corso d’opera” qualora i risultati non siano soddisfacenti, venendo ricambiato con la tanto agognata promozione in B al termine del torneo 1967-’68, che vede il Cesena di Meucci trionfare nel Girone B della Serie C con 51 punti, frutto di un’incredibile serie positiva di 15 turni dalla 24esima alla 38esima giornata, dopo che due sconfitte consecutive a La Spezia e Prato – ovvero le due principali rivali – nel mese di febbraio avevano fatto temere il peggio.

E, “ciliegina sulla torta”, la matematica certezza della promozione giunge alla penultima giornata con il successo per 2-1 a Rimini, ovvero nel “derby romagnolo”, toccando al figlio d’arte Luis Cesar Carniglia trasformare il calcio di rigore del trionfo, in una formazione che vede disputare il suo primo torneo da titolare – dopo aver esordito in prima squadra il 26 marzo 1967 nel pari esterno per 0-0 ad Ancona – a Giampiero Ceccarelli, difensore destinato a divenirne la bandiera per quasi un ventennio.

Artefice della promozione è il tecnico Meucci, ma l’approccio alla serie cadetta è disastroso, con il Cesena che dopo 14 giornate è ultimo con 9 punti alla pari con il Mantova, avendo vinto un solo incontro (1-0 a Padova e per giunta su autorete), così che il cambio in panchina è scontato con il ritorno di Matassoni, che riesce a salvare la categoria con due turni d’anticipo.

Il problema è l’attacco, dove sono venuti a godersi gli ultimi “spiccioli di gloria” i veterani Beniamino Di Giacomo e Gino Stacchini (quest’ultimo altro romagnolo purosangue), e si mette viceversa in luce l’ala Sidio Corradi, miglior marcatore con 7 reti, ma che a fine stagione si trasferisce al Varese, mentre Di Giacomo si accasa ad Ancona.

Al loro posto giungono l’ex rossonero Paolo Ferrario ed un 23enne Fabio Enzo proveniente dalla Roma, un cambio fruttifero, visto che i rispettivi 10 ed 8 centri consentono al Cesena di mantenere la categoria a conclusione di un campionato quanto mai equilibrato che vede ben 8 squadre – dai 35 punti di Cesena, Perugia e Modena ai 33 di Atalanta, Catanzaro, Taranto e Reggiana – racchiuse nello spazio di appena due lunghezze, con a retrocedere per una peggior differenza reti proprio i granata emiliani.

C’è comunque sempre da soffrire, ed anche il torneo 1971 si conclude con una risicata salvezza ottenuta all’ultima giornata, al termine di un campionato che vede tornare a difesa della porta bianconera Antonio Annibale che già vi aveva militato dal 1961 al 1967 per poi approdare per un triennio al Pisa ed in cui si mette altresì in evidenza il terzino Paolo Ammoniaci, prodotto del vivaio, che fa coppia con Ceccarelli in difesa.

Una salvezza conquistata grazie alla forza della difesa (appena 29 reti subite), reparto che fa la differenza anche nel successivo torneo con sole 25 reti al passivo che consente per la prima volta al Cesena di affacciarsi ai “piani alti” della graduatoria, concludendo la stagione in sesta posizione con 43 punti, a sole 5 lunghezze dal Palermo terzo classificato e promosso assieme a Ternana e Lazio.

Una formazione sulla cui panchina era approdato Gigi Radice, reduce da un biennio alla guida del Monza e che, confermato per la successiva stagione, coglie il primo importante successo come allenatore, guidando i bianconeri romagnoli alla prima, “storica” promozione nella massima serie.

Ed, anche stavolta, gran parte del merito va al reparto difensivo – imperniato sul portiere Claudio Mantovani, la coppia di terzini Ceccarelli ed Ammoniaci, il giovanissimo stopper Enrico Lanzi ed il libero Franco Battisodo, in prestito dal Bologna – che subisce appena 21 reti, con il solo Catania a far meglio con 20.

Dopo aver concluso il girone di andata al comando con 27 punti – a pari merito con il Genoa e tre lunghezze di margine sulla coppia formata da Catania e Catanzaro , i bianconeri riescono, dopo la sconfitta per 0-1 ad Ascoli alla 23sima giornata, a mantenere la porta inviolata per i successivi 13 turni (caratterizzati da tre vittorie per 1-0, una per 2-0 e 9 pareggi per 0-0!), così da ritrovarsi al penultimo appuntamento con il “match point” in mano, ospitando alla “Fiorita” il Mantova avendo tre punti di vantaggio sugli stessi marchigiani.

Ed anche stavolta, come cinque anni prima in occasione della promozione in B, a siglare lo storico traguardo è un tiro dal dischetto, trasformato da Carnevali al 78’ dopo l’iniziale vantaggio di Augusto Scala, rendendo vana la rete della bandiera di Bertuolo per i virgiliani nel finale.

Manuzzi corona il sogno non solo della città ma anche della Romagna intera, con i tifosi a dover adesso scegliere quale bianconero “adottare” in vista delle sfide con la “Vecchia Signora”, ma intanto c’è da pensare alla sostituzione di Radice, approdato alla Fiorentina prima di coronare la sua carriera riportando lo scudetto a Torino versione granata, e la scelta cade su di un altro tecnico in auge, vale a dire l’emiliano di Borgo Val di Taro Eugenio Bersellini.

Giunto in Romagna dal Como, il tecnico si porta dietro lo stopper Luigi Danova a sostituire Lanzi approdato al Milan, mentre per sostituire Battisodo rientrato al Bologna, viene compiuta una mossa di mercato che si rivela vincente, vale a dire acquistare dal Cagliari il 32enne Pierluigi Cera, uno dei protagonisti della straordinaria impresa di aver portato lo scudetto in Sardegna nel 1970.

Costituita altresì una valida alternativa a Mantovani tra i pali con l’acquisto del 31enne Lamberto Boranga dalla Reggiana, anche tale decisione si rivela produttiva, visto che quest’ultimo ne rileva il ruolo di titolare dalla decima giornata, con i bianconeri a concludere il campionato come quinta miglior difesa con appena 28 reti subite, garantendosi la matematica salvezza con due turni di anticipo, grazie al pari per 0-0 a Firenze, curiosamente contro il tecnico della promozione Radice.

Un Cesena che costruisce la propria salvezza, oltre che sulla forza del reparto difensivo, anche sul fattore campo, visto che alla “Fiorita” riescono ad imporsi solo l’Inter (1-0) e la Juventus (2-0), mentre paga dazio il Milan, sconfitto 1-0 con rete di Bertarelli, e vengono fermati sul pari Napoli, Torino, Roma, Fiorentina ed i futuri campioni d’Italia della Lazio.

Il buon lavoro svolto da Bersellini, supportato in attacco dalla coppia formata da Giuliano Bertarelli e Giovanni Toschi, consente al tecnico di garantirsi la conferma, mantenendo invariato lo scacchiere difensivo, fatto salvo l’avvicendamento come estremo difensore fra Mantovani ed Ernesto Galli (reduce da un quadriennio da titolare al Brescia), il quale si alterna con Boranga fra i pali.

Le note dolenti vengono, come logico peraltro, dall’attacco, dove il solo Bertarelli si conferma eguagliando le 6 reti del precedente torneo, ma in ogni caso la salvezza viene ottenuta con ancora due giornate prima del traguardo, grazie al pari esterno per 2-2 a Cagliari in un torneo la cui “perla” è costituita dal bis interno contro il Milan, ancora un 1-0 firmato stavolta da Zuccheri.

Come successo con Radice, anche per Bersellini è il momento di fare le valigie, accasandosi alla Sampdoria prima di fare il “grande salto” sulla panchina dell’Inter, riportando nel 1980 in casa nerazzurra uno scudetto che mancava da 9 anni, venendo sostituito da un tecnico di cui si dice un gran bene, ovvero Giuseppe “Pippo” Marchioro, reduce dall’aver condotto il Como alla promozione nella massima serie.

Stavolta qualcosa cambia, innanzitutto con la piena fiducia accordata a Boranga fra i pali (con l’esperto portiere a risultare sempre presente) dopo il trasferimento di Galli al Vicenza, e quindi con lo scambio con la Lazio fra Ammoniaci e Giancarlo Oddi, mentre a centrocampo a Rognoni, già in forza dalla precedente stagione, viene affiancato l’esperto Frustalupi, campione d’Italia con la Lazio nel 1974.

Se a ciò si aggiunge un gioco spumeggiante impostato da Marchioro, ecco che in Romagna vivono la loro “stagione di gloria”, coronata da un sesto posto impensabile alla vigilia a quota 32 punti ed in più con la soddisfazione di aver contribuito non poco a favorire la vittoria dello scudetto del Torino di Radice, imponendo all’andata un rocambolesco 3-3 al “Comunale contro la Juventus (dopo aver condotto 2-0 e 3-2) e quindi superando 2-1 i bianconeri al ritorno con doppietta di Bertarelli dopo l’iniziale vantaggio ospite con Damiani, oltre ad aver inflitto al Milan la terza sconfitta consecutiva alla “Fiorita”.

Raggiunto l’apice, la parabola del Cesena è destinata a declinare, innanzitutto con il tecnico Marchioro ad essere allettato dalle sirene del Milan per un’esperienza che risulta negativa, così che quella che doveva rivelarsi la stagione della conferma – con tanto di debutto in Coppa Uefa, uscendo al primo turno, ma comunque onorevolmente (0-3 e 3-1) contro i tedeschi orientali del Magdeburgo –, è al contrario del tutto fallimentare, con i bianconeri desolatamente ultimi con appena 14 punti conquistati ed, ironia della sorte, sconfitti stavolta 2-0 dal Milan all’ultima giornata, risultato che garantisce ai rossoneri una quanto mai tribolata salvezza.

Richiamato in fretta e furia Marchioro, neppure lui ha la “bacchetta magica”, concludendo il successivo torneo cadetto in un’anonima nona posizione, ed ancora peggio fa l’anno seguente Giancarlo Cadè, con il Cesena 13esimo, per poi doversi registrare l’evento che porta alla conclusione dell’“era Manuzzi”, in quanto a metà agosto 1979 il presidente è vittima di una caduta in casa che lo costringe a sottoporsi ad un delicato intervento chirurgico alla testa, dal quale non si riprende più completamente, decidendo nel maggio 1980 di passare la mano al nipote Edmeo Lugaresi.

Nel frattempo, però, sulla panchina bianconera aveva preso posto il futuro “mago della BovisaOsvaldo Bagnoli che, in un paio di stagioni, risolleva le sorti del club, sfiorando nel 1980 la promozione in A (quarto con 43 punti, a due sole lunghezze dal Brescia, promosso assieme a Como e Pistoiese), per poi centrarla l’anno successivo, assieme a Milan e Genoa, superando 2-0 l’Atalanta all’ultima giornata.

Curiosamente, anche Bagnoli, al pari di Radice e Bersellini prima di lui, utilizza l’esperienza in Romagna quale ideale “trampolino di lancio” per trionfi futuri, riuscendo nel 1985 con il Verona a coronare un sogno che sembrava a tutti impossibile.

Per Manuzzi, viceversa, il ritorno nella massima serie e la salvezza ottenuta l’anno seguente con Giovan Battista Fabbri e Lucchi alternatisi alla panchina, rappresentano le ultime gioie di una vita spesa all’attacco, in quanto scompare il 29 maggio 1982 a 75 anni ancora da compiere.

Per quanto ovvio, l’amministrazione comunale non tarda ad intitolare all’ex-presidente lo stadio, che ha mantenuto il nome anche dopo i lavori di ristrutturazione eseguiti nel 1988.

E, del resto, come si è abituati spesso a recitarela prima volta non si scorda mai…”.

LA “BATTAGLIA DEL BERNABEU” TRA ATHLETIC BILBAO E BARCELLONA, FINALE DI COPA DEL REY 1984

Il capitano Dani dell’Athletic con la coppa – da tonyface.blogspot.com

articolo di Giovanni Manenti

Pur non raggiungendo l’indubbio fascino della “Football Association Cup” (ovvero la Coppa d’Inghilterra), anche la Copa del Rey spagnola – che dal 1932 al 1936 assume la denominazione di Copa del Presidente de la Republica e dal 1939 al 1976 di Copa del Generalisimo – è altrettanto seguita, potendo contare altresì di una forte rivalità regionale che contraddistingue in particolare i club catalani e dei Paesi Baschi rispetto agli “odiati” rivali della capitale Madrid.

Ed, in analogia con il torneo d’Oltremanica, anche nella penisola iberica la manifestazione precede la nascita del campionato di calcio a girone unico – denominato Primera Division sino al recente avvento de La Liga –, essendosi la prima edizione svolta nel 1903, rispetto al campionato datato 1929.

Una sostanziale differenza tra coppa e campionato sta nel fatto che, mentre quest’ultimo vede la netta supremazia delle due “grandi di Spagna”, ovvero Real Madrid e Barcellona – con 35 e 27 titoli rispettivamente, con l’Atletico Madrid nettamente distante con 11 affermazioni –, la coppa è stata per lunghissimo tempo patrimonio dei baschi dell’Athletic Bilbao, i quali primeggiano il relativo albo d’oro sino alla fine del XX secolo, raggiunti dal Barcellona a quota 23 vittorie al termine dell’edizione 1998.

Formazione basca che ha dominato la manifestazione principalmente nel periodo ante e post la “Guerra Civile” (1936-’39), aggiudicandosi 7 edizioni fra il 1930 ed il 1945, per poi far suo il trofeo in tre stagioni (1955-’56 e 1958) verso la fine degli anni ’50, prima di veder progressivamente ridursi la sua leadership, pur se i suoi 23 successi la pongono tuttora al secondo posto della relativa “graduatoria all time”, preceduta solo dal “Barcellona dell’era Messi”, giunto a quota 31, ma ancora davanti al Real Madrid, fermo a 20.

Athletic Bilbao che, assieme agli stessi Real e Barcellona, è il solo terzo club spagnolo a non essere mai retrocesso dalla prima divisione, ancorché le sue due ultime affermazioni in campionato risalgano al biennio 1983-’84, con la seconda stagione coronata altresì dal successo in Copa del Rey ed, anche in questo caso, le successive sei apparizioni in finale si sono tutte concluse con altrettante sconfitte.

Merita, pertanto, di essere celebrata quella stagione 1983-’84 che, a tutt’oggi, resta come l’ultimo “anno di gloria” in terra basca, pur avendo il club mantenuto uno standard di rendimento medio-alto che, oltre a raggiungere le finali di coppa, l’ha altresì visto secondo in Primera Division nel 1998 nonché finalista dell’edizione 2012 della Europa League, superato 3-0 dai connazionali dell’Atletico Madrid.

Tornato l’anno precedente a festeggiare il titolo di campione di Spagna – che mancava nella bacheca basca dal 1956 – al termine di un finale di campionato a dir poco rocambolesco, operando il sorpasso (50 punti a 49) sul Real Madrid solo all’ultima giornata, ecco che l’Athletic Bilbao si presenta ai nastri di partenza della stagione 1983-’84 ben deciso a confermare il titolo dagli assalti dello stesso Real e di un Barcellona che nell’estate 1982 ha ingaggiato il 22enne Diego Armando Maradona reduce dalla delusione del Mondiale spagnolo.

Fuoriclasse argentino che ha illuminato il panorama calcistico iberico con sprazzi della sua classe, pur condizionato da un infortunio che gli ha fatto perdere 14 gare, rimettendosi peraltro in tempo per contribuire al trionfo dei catalani per 2-1 sul Real Madrid nella finale della Copa del Rey, torneo che nei quarti ha visto gli azulgrana eliminare (0-1 e 3-0, con sigillo del “Pibe de Oro”) proprio il Bilbao.

Pienamente ristabilito, il fuoriclasse argentino intende dimostrare il proprio valore nella nuova stagione, che vede alla quarta giornata la sfida al “Camp Nou” fra il Barcellona ed i campioni in carica del Bilbao, con il pubblico catalano a “prendere di mira” il difensore basco Andoni Goikoetxea, reo di aver commesso, nella gara svoltasi il 13 dicembre 1981 a “La Catedral” di San Mames, un grave fallo sul tedesco Bernd Schuster tale da impedirgli la prosecuzione della stagione.

L’incontro non si mette bene per i baschi, che all’intervallo sono sotto 0-2 (reti di Perico Alonso e Julio Alberto), ed ancor meno per Goikoetxea, al quale Schuster ha in parte “restituito” un intervento da codice penale senza essere neppure sanzionato dal direttore di gara.

Ecco, quindi, che allo scoccare dell’ora di gioco, il difensore basco entra duramente in scivolata sulla caviglia sinistra di un Maradona che l’aveva superato di slancio, provocandone la frattura in tre punti, con l’argentino a temere per la propria futura carriera, fortunatamente non pregiudicata come tutti ben sappiamo, pur non potendo essere impiegato per tutto il resto del girone di andata.

Ed è così che il Barcellona, che all’epoca del “fattaccio” era terzo in classifica con 6 punti ed a due lunghezze dalla capolista Atletico Madrid, si ritrova staccato di 5 punti a metà gennaio 1984 dall’Athletic Bilbao dopo la sconfitta per 2-4 ad Osasuna che vede il ritorno al goal di Maradona, che trasforma due calci di rigore.

Un Maradona che ottiene la sua rivincita due settimane dopo allorché sigla la doppietta che consente al Barcellona di andare ad espugnare per 2-1 il terreno dei campioni in carica, ma poi la sconfitta per 1-2 a fine febbraio nel “Clasico” a Madrid ne spegne le velleità di titolo, ritrovandosi a 6 punti (37 a 31) di distacco dalle “merengues”, seguite a due lunghezze dall’Athletic per rinnovare il duello della precedente stagione.

Meglio, quindi, dedicarsi alla Copa del Rey dove, a tale punto della stagione, sono in corso i quarti di finale, ai quali i catalani sono giunti avendo eliminato (1-2 e 3-0) l’Hercules Alicante, mentre i baschi hanno avuto ragione solo ai rigori (dopo due pareggi per 0-0 ed 1-1) dei corregionali della Real Sociedad.

Gli abbinamenti dei quarti prevedono le sfide Deportivo La Coruna-Real Madrid, Sporting Gijon-Athletic Bilbao, Barcellona-Osasuna e Castilla-Las Palmas, sfida quest’ultima che gli isolani si aggiudicano ribaltando al ritorno con un 3-0 lo 0-2 dell’andata.

Altrettanto costretti a recuperare uno svantaggio, sia pur minimo, rispetto all’andata anche l’Athletic Bilbao (1-2 e 2-0) ed il Real Madrid (1-2 e 3-0), mentre qualificazione già in cassaforte dopo il 4-0 (con poker di Quini, al suo ultimo acuto in maglia azulgrana) del “Camp Nou” per il Barcellona, con la conseguente sconfitta indolore (2-3 dopo aver condotto 2-0) al ritorno.

Le semifinali sono in programma il 4 e 18 aprile 1984, a cavallo tra il 31esimo ed il 33esimo turno della Primera Division che, a conclusione della 32esima giornata disputata il 14 e 15 aprile, vede una situazione quanto mai incerta in vetta, con Athletic Bilbao e Real Madrid appaiate a quota 45 punti ed il Barcellona, rilanciato da un ruolino di marcia di 6 vittorie ed un pari nelle ultime sette uscite, staccato di una sola lunghezza.

Copa del Rey e campionato sulla stessa lunghezza d’onda, quindi, con a beneficarne, almeno sulla carta, il club catalano che il sorteggio ha opposto al Las Palmas, se non fosse che il minimo margine costruito all’andata (2-1 con reti di Clos ed Alexanko) non è sufficiente nella trasferta alle Isole Canarie, dove una rete di Contreras allo scoccare dell’ora di gioco manda le due squadre ai supplementari e quindi ai calci di rigore dove gli azulgrana si dimostrano più freddi, andando 4 volte a segno contro le sole 2 dei locali.

Stesso esito dell’altra sfida tra Athletic e Real, con le squadre a “scambiarsi i favori”, nel senso che i baschi si impongono 1-0 al “Santiago Bernabeu(decisivo un penalty trasformato da Urtubi) ed i madridisti fanno altrettanto a “La Catedral” grazie al centro di Pineda, con la decisione ai rigori a premiare i padroni di casa che commettono un solo errore contro i due dei rivali.

Con, pertanto, Athletic e Barcellona ancora in lizza per il “doble” (ovvero accoppiata campionato/coppa nazionale), per avere i verdetti definitivi occorre attendere tre settimane, durante le quali si conclude la Primera Division, che vede le tre squadre in lizza affrontare l’ultimo turno nella medesima situazione (con 47 e 46 punti rispettivamente), con sfide incrociate, nel senso che il Real rende visita a Barcellona all’Espanyol, così come gli azulgrana si recano a Madrid per affrontare l’Atletico e l’Athletic è impegnato fra le mura amiche, ma nel sempre ostico “derby basco” con la Real Sociedad di San Sebastian.

Occorre precisare che, in Spagna, in caso di arrivo a pari punti a risultare determinante è la differenza reti, che vede l’Athletic con un minimo margine (+23 a +22) di vantaggio sul Real, mentre qualora il Barcellona dovesse raggiungere le rivali avrebbe dalla sua un ben più ampio differenziale di +34.

A fine dei primi tempi, l’undici di Maradona conduce 2-1 (reti di Rojo e Carrasco), mentre l’Athletic è in vantaggio 1-0 con Liceranzu ed il Real è bloccato sullo 0-0, con il titolo pertanto a restare per il momento a Bilbao.

Con il Barcellona a portare sino in fondo il 2-1 della prima frazione di gioco, l’assegnazione del campionato balla fra Bilbao ed il campo dell’Espanyol, dove giunge la notizia che al 10’ della ripresa Orejuela ha portato in vantaggio i padroni di casa, tanto da infiammare il pubblico biancorosso del San Mamés.

Gioia, peraltro, di brevissima durata, in quanto a poco più di 20’ dal termine Butragueno pareggia su rigore proprio mentre, contemporaneamente, Uralde sigla il punto del provvisorio 1-1 per la Real Sociedad, così che, al momento, tra i “due litiganti” a godere sarebbe proprio il Barcellona, favorito in un arrivo a tre a pari punti.

Le speranze dei tifosi catalani durano una decina di minuti, dato che ancora Liceranzu mette a segno il punto del definitivo 2-1 per l’Athletic, ancorché sia ancora presto per far festa in terra basca, visto che a 7’ dal termine Butragueno trasforma un secondo penalty che riporta il Real a pari punti con il Bilbao e con gli ultimi minuti a disposizione per cercare di recuperare lo svantaggio nella differenza reti.

Le radioline vedono i cronisti rimbalzarsi la linea fra i due campi interessati, ma nulla cambia ed al 90’ l’Athletic si conferma campione della Primera Division, con il Real beffato per il secondo anno consecutivo ed il Barcellona a pensare che forse, senza quel “maledetto” infortunio del suo giocatore leader, le cose sarebbero potute andare diversamente.

Capirete, pertanto, che non si tratta certo del “clima ideale” per vedere le due squadre affrontarsi il successivo 5 maggio 1984 per la finale di Copa del Rey in un “Santiago Bernabeu” gremito da 100mila spettatori e la direzione di gara affidata all’arbitro Angel Franco Martinez.

La tensione è palpabile, in campo come sugli spalti, e la gara viene risolta ancor prima dello scoccare del quarto d’ora di gioco dal “Rre per una notte” Endika Guattotxena che, liberatosi in area, trafigge Urruti per quella che resta la rete più importante della sua carriera.

Da lì in avanti, più calci che calcio, con interventi al limite del codice penale da una parte e dall’altra ed il direttore di gara abbastanza di “manica larga” (tre ammoniti tra i baschi e quattro tra i catalani) per cercare di portare a termine la partita di cui fischia la fine al 48’ del secondo tempo dopo che già dagli spalti è piovuto di tutto sul terreno di gioco, con anche qualche ferito, fortunatamente in maniera lieve.

Il triplice fischio scatena però la “resa dei conti” fra i protagonisti, con a scatenare l’inferno proprio Maradona, seguito da Migueli che rende giustizia al proprio compagno con una entrata da kung-fu sul famigerato Goikoetxea – da quel maledetto 25 settembre 1983 per tutti “il macellaio di Bilbao” –, e solo l’intervento della polizia consente di ristabilire la calma.

Con questo poco glorioso spettacolo – e forse proprio perché aveva già maturato la decisione – ,Maradona saluta la Catalogna per sbancare a Napoli e far impazzire l’intero popolo partenopeo, mentre l’Athletic ancora non può saperlo, ma saranno questi, sino ad oggi, i suoi ultimi trofei vinti, escludendo due successive Supercoppe di Spagna.

C’è qualcuno che si ricorda la famosa “maledizione di Guttmann” contro il Benfica? Chissà se “El Diez” argentino abbia fatto un qualcosa di simile

Ma tanto, purtroppo, non ce lo potrà più confessare.    

LA COPA AMERICA 2004 INCORONA ADRIANO “IMPERATORE” DEL BRASILE

Il Brasile vincitore della Copa America 2004 – da gettyimages.it

articolo di Giovanni Manenti

Dopo essersi aggiudicato il suo quinto Mondiale superando 2-0 la Germania nella finale dell’edizione 2002 di Yokohama, il Brasile si appresta a difendere il titolo quattro anni dopo proprio nella nazione tedesca, verificando le qualità degli aspiranti ad essere selezionati per questa manifestazione in occasione della Copa America 2004 che si svolge in Perù dal 6 al 25 luglio.

Prova ne sia che il nuovo commissario tecnico Carlos Alberto Parreira – in carica dal 12 febbraio 2003 in sostituzione di Luiz Felipe Scolari, e che aveva già guidato la Seleçao alla conquista del titolo ai Mondiali di Usa ’94 – convoca il solo Kleberson quale reduce della rassegna nippo-coreana, formando una lista di 22 giocatori tutti al di sotto dei 30 anni, pur se molti di loro già affermati, sia in patria che in Europa.

Fra di essi, molta curiosità è riservata al 22enne attaccante Adriano Leite Ribeiro, un colosso di 1,89 metri per 95 chili dalla potenza di tiro devastante, giunto giovanissimo in Italia acquistato dall’Inter, club di cui è tornato a vestire i colori dopo positive esperienze alla Fiorentina ed al Parma.

A far coppia con lui in attacco è il centravanti del San Paolo Luis Fabiano, conosciuto in Brasile come “O Fabuloso”, un soprannome che è tutto un programma, mentre un’importante variazione tattica fra i due commissari tecnici sta nel fatto che Carlos Alberto Parreira si affida ad un classico 4-4-2 rispetto al 5-3-2 del suo predecessore, modulo quest’ultimo che in fase di possesso palla diveniva un 3-5-2 potendo sfruttare la forza straripante dei due esterni bassi Cafu e Roberto Carlos.

Rassegna alla quale, come oramai di prassi da alcune edizioni, la partecipazione è allargata – oltre che alle 10 Nazionali sudamericane affiliate alla CONMEBOL (Confederacion Sudamericana de Futbol) – anche a due rappresentati del Nord e Centro America, vale a dire il Messico ed il Costarica, con conseguente suddivisione delle 12 partecipanti in tre gruppi da quattro squadre ciascuno, dai quali si qualificano per la fase ad eliminazione diretta le prime due e le due migliori terze.

Un primo turno, pertanto, che difficilmente può riservare grandi sorprese, prima di entrare nel vivo della competizione con i quarti di finale, con i gironi ad essere rispettivamente composti da Colombia, Perù, Bolivia e Venezuela (Gruppo A), Argentina, Messico, Uruguay ed Ecuador (Gruppo B) e da Brasile, Cile, Costarica e Paraguay per quanto attiene al Gruppo D.

Torneo che prende il via il 6 luglio 2004 con le due gare del Gruppo A che vedono la Colombia avere ragione solo per 1-0 (grazie ad un rigore di Moreno) del Venezuela, mentre i padroni di casa del Perù rischiano la sconfitta con la Bolivia, salvati dal punto di Palacios per il 2-2 a 4’ dal termine.

Peruviani che si riscattano tre giorni dopo con il 3-1 rifilato al Venezuela, mentre la Colombia replica il successo di misura sulla Bolivia – incontro risolto a proprio favore da Perea al 90’ – garantendosi con un turno di anticipo il passaggio ai quarti, unitamente al padroni di casa, con cui dividono salomonicamente la posta (2-2) nel match conclusivo del girone, mentre il pari fra Bolivia e Venezuela determina l’eliminazione di entrambe.

Attesa con curiosità alla prova anche l’Argentina, che non si aggiudica il torneo dall’edizione 1993 con Gabriel Batistuta grande protagonista, la quale propone una Seleccion in cui figurano giocatori esperti quali l’estremo difensore Roberto “Pato” Abbondanzieri, i difensori Heinze ed Ayala, ed i centrocampisti Javier Zanetti e Kily Gonzalez, unitamente a prospetti di sicuro avvenire quali i ventenni Javier Mascherano e Carlitos Tevez ed il 22enne Javier Saviola.

Tra i convocati del commissario tecnico Marcelo Bielsa ve ne sono quattro – Mauro Coloccini, Andrés D’Alessandro, Mauro Rosales e Saviola – che tre anni prima si erano aggiudicati l’edizione 2001 dei Mondiali Under20 superando 3-0 il Ghana in finale e con Saviola ad aggiudicarsi sia la palma di capocannoniere con 11 reti nelle 6 gare disputate, che di MVP del torneo.

Un Saviola su cui pertanto sono puntati i fari degli osservatori e che si presenta siglando una tripletta nel 6-1 inflitto all’Ecuador all’esordio nel Gruppo B del 7 luglio 2004, mentre il Messico impone il 2-2 all’Uruguay che solo allo scadere raggiunge la parità per merito dello juventino Pablo Montero.

Formazione abituata a rendere dura la vita alle sudamericane, il Messico conferma tale tradizione nella seconda giornata superando 1-0 proprio l’”Albiceleste”, con il risultato sbloccato da una superba punizione di Morales in apertura, mentre l’Uruguay riesce a far suo di misura (2-1) l’incontro con l’Ecuador, rimandando il tutto al turno conclusivo per la definizione della classifica.

Sceso per primo in campo, il Messico si garantisce il primo posto nel girone con il 2-1 sull’Ecuador, che conclude così a quota zero, mentre la più classica delle rivalità del continente sudamericano costituita dal “derby del Rio de la Plata” premia l’Argentina che, dopo un primo tempo concluso sul 2-2, opera lo scatto decisivo negli ultimi 10’ grazie alle reti di Ayala e Figueroa.

Resta il Brasile, che inaugura il torneo con una risicata vittoria per 1-0 sul Cile maturata solo al 90’ per merito di Luis Fabiano, stesso punteggio con cui il Paraguay regola il Costarica grazie ad un rigore trasformato da Julio dos Santos a 5’ dal fischio conclusivo, per poi impattare per 1-1 con il Cile.

La sfida, viceversa, fra Brasile e Costarica consente di fare la conoscenza delle potenzialità di Adriano, il quale con una tripletta (intervallata da un centro di Juan) garantisce ai verdeoro il passaggio del turno, con i caraibici a siglare solo a 9’ dal termine la rete della bandiera, ottenendo peraltro anch’essi la qualificazione ai quarti in virtù del 2-1 con cui superano il Cile, gara anch’essa decisa al 90’ dal centro di Herron.

L’opportunità di giocare per ultimi consente, in questo tipo di manifestazioni, di “scegliersi” l’avversaria nel turno successivo, circostanza che può aver influito nella sconfitta per 1-2 della “Seleçao” contro il Paraguay, così da affrontare il Messico nei quarti rispetto al sicuramente più ostico Uruguay, Nazionale contro la quale non vanta certo ”simpatici” ricordi.

Conclusa la fase a gironi, si torna quindi in campo il 17 luglio 2004 con la disputa dei primi due quarti che oppongono l’Argentina ai padroni di casa del Perù e la Colombia – fra l’altro campione in carica essendosi aggiudicata l’edizione 2001 dalla lei stessa organizzata, superando 1-0 il Messico in finale – al Costarica, match quest’ultimo che “Los Cafeteros” si aggiudicano 2-0 chiudendo la pratica già prima dell’intervallo, grazie ai centri di Abel Aguilar e Tressor Moreno in chiusura di prima frazione.

Ben più complicata la qualificazione alle semifinali da parte dell’Argentina, impegnata all’“Estadio Elias Aguirre” di Chiclayo contro il Perù, dovendo ringraziare la rete messa a segno allo scoccare dell’ora di gioco da parte di Tevez, che trasformando un calcio di punizione ottiene altresì il suo primo centro con la maglia della Nazionale, sufficiente a garantire l’appuntamento contro la Colombia che vale l’accesso alla finale.

All’indomani, le prime a scendere in campo sono le formazioni di Uruguay e Paraguay, con quest’ultimi a portarsi in vantaggio al quarto d’ora grazie al difensore centrale Carlos Gamarra (in forza all’Inter), salvo farsi raggiungere prima del riposo da un calcio di rigore trasformato da Bueno e quindi superare nella ripresa per la doppietta dell’ex Cagliari Dario Silva, all’epoca militante nel Siviglia.

Quella che il Brasile ha evitato nei quarti è una sfida che ha luogo in semifinale, visto che tocca stavolta al Messico “fare i conti” con la potenza devastante di Adriano il quale – dopo che il capitano Alex ha sbloccato il risultato nella prima frazione su calcio di rigore concesso per fallo sullo stesso Adriano – realizza una doppietta a metà ripresa – dapprima con una conclusione di sinistro dal limite che si infila nell’angolo basso alla sinistra di Oswaldo Sanchez e quindi con un diagonale da posizione angolata dopo aver superato l’estremo difensore messicano –, per poi lasciare al subentrato Ricardo Oliveira l’onore di mettere il sigillo al rotondo 4-0 definitivo.

Due semifinali, pertanto, di altissimo livello, con ad avere come scenario lo “Estadio Nacional” della capitale peruviana Lima e la prima ad andare in scena è la sfida fra Argentina e Colombia del 20 luglio 2004.

Avendoci evidentemente preso gusto, ecco che Tevez si ripete, toccando a lui sbloccare il risultato poco dopo la mezzora ed ancora sfruttando al meglio un calcio di punizione dal limite, così da indirizzare la sfida dalla parte della Seleccion, con Lucho Gonzalez e Sorin ad arrotondare il punteggio nella ripresa per il 3-0 conclusivo che certifica il ritorno dell’Argentina in finale a distanza di 11 anni dal successo del 1993.

Passano 24 ore e per conoscere l’avversaria non bastano 90’ della sfida fra Brasile ed Uruguay, in quanto al vantaggio della “Celeste” con Marcelo Sosa, abile ad avvitarsi di testa in tuffo per deviare alle spalle di Julio Cesar un calcio di punizione, replica ad inizio ripresa Adriano che devia ad inizio ripresa a centro area un diagonale da destra di Luis Fabiano.

Soluzione pertanto demandata ai calci di rigore, dove nelle prime tre serie vanno regolarmente a segno Luisao, Luis Fabiano ed Adriano da una parte e Dario Silva, Viera e Pouso dall’altra, per poi, al quarto tentativo, Renato andare a segno al contrario di Sanchez, la cui conclusione viene respinta da Julio Cesar, così che l’ultimo penalty trasformato da Alex manda il Brasile a disputare la sua terza finale nelle ultime quattro edizioni della Copa America.

Per l’Uruguay, l’amara consolazione del terzo posto grazie al 2-1 sulla Colombia firmato dalla rete decisiva di Sanchez a 10’ dal termine, ma ora tutti gli occhi sono puntati sul “Clasico” che si disputa alle 15:00 ora locale del 25 luglio 2004, davanti a 43mila spettatori e con la direzione di gara affidata all’arbitro paraguaiano Carlos Amarilla.

Dopo una fase iniziale di studio, il risultato si sblocca al 20’, allorché una penetrazione in area di Lucho Gonzalez su tacco smarcante di Tevez viene stroncata fallosamente da Luisao per un chiaro penalty che Kily Gonzalez si incarica di trasformare con una gran botta di sinistro che non lascia scampo a Julio Cesar.

Lo stesso Luisao, in chiusura di primo tempo, si riscatta andando ad impattare con una precisa deviazione di testa un calcio di punizione battuto dalla sinistra da Alex per il punto dell’1-1 con cui le due squadre vanno al riposo.

Nella ripresa, ha inizio il “valzer delle sostituzioni”, con Bielsa a mandare in campo Delgado per Rosales e D’Alessandro per Lucho Gonzalez, mosse alle quali Carlo Alberto Perreira risponde inserendo Diego per Kleberson e Felipe per Alex, ma la situazione di parità non si sblocca, almeno sino allo scoppiettante finale.

Avviene, difatti, che dopo che il Brasile ha operato il terzo ed ultimo cambio a disposizione con Cris a rilevare l’infortunato Luisao, un’insistita azione argentina sulla fascia destra conclusa con un cross a centro area per l’avanzato Sorin, veda quest’ultimo contrastato da Juan ed il rimpallo fa pervenire la sfera allo smarcato Delgado che, pur da posizione defilata, fa partire un violento diagonale che si insacca nell’angolo opposto a quello di tiro.

In vantaggio 2-1 allorché il cronometro ha già superato l’87’ minuto di gioco, in casa albiceleste già si pregusta il ritorno alla conquista del trofeo, senza aver peraltro “fatto i conti” con Adriano e la sua voglia di essere il protagonista assoluto della rassegna.

Siamo già nel recupero, il cronometro segnala il 92’ con tutta la panchina argentina in piedi in attesa del triplice fischio finale, allorché con l’ultima azione dell’incontro Diego manda la palla a centro area dove viene contesa di testa fra Luis Fabiano e Coloccini per poi essere arpionata da Adriano che, con le spalle rivolte alla porta, se l’aggiusta e fa partire un tiro di sinistro che si insacca nell’angolo basso alla sinistra dell’incolpevole Abbondanzieri.

La rete del pari scatena uno scenario abituale in Sudamerica, con i 22 in campo a non mandarsele a dire, tanto che deve intervenire anche la polizia per riportare la calma e predisporsi quindi alla decisione circa l’assegnazione della Copa demandata ai calci di rigore, con il primo a tirare ad essere D’Alessandro.

Julio Cesar, però, è uno dei migliori estremi difensori in questo particolare esercizio – una qualità che dimostrerà anche in Italia nelle file dell’Inter – e, pertanto, “ricomincia da dove aveva finito”, ovvero respingendo la conclusione del centrocampista argentino così come aveva fatto con Sanchez in semifinale, mentre Adriano non fallisce la sua trasformazione.

La bravura dell’estremo difensore brasiliano nell’intercettare le conclusioni dal dischetto fa sì che Heinze forzi la sua trasformazione, con l’effetto di mandare la sfera alta sopra la traversa, così che la successiva trasformazione di Edu consegna ai suoi compagni un doppio vantaggio da gestire.

Ed anche se Kily Gonzalez e Sorin compiono il loro dovere, l’aver realizzato il proprio rigore da parte di Diego sta a significare che il primo “match ball” tocchi a Juan, il quale mantiene la giusta freddezza per spiazzare Abbondanzieri e regalare alla “Seleçao” la settima Copa America della sua storia.

Un trionfo sul quale mette il proprio marchio indelebile Adriano, che oltre ad assicurarsi la palma di capocannoniere con 7 reti, si aggiudica anche il titolo di MVP del torneo, attirando su di sé le speranze di tutto il popolo carioca in vista di successivi trionfi.

Purtroppo, proprio mentre si aggrega all’Inter per il ritiro precampionato, Adriano viene raggiunto dalla notizia della morte del padre, un lutto dal quale non si riprenderà mai completamente e, dopo due buone stagioni coi nerazzurri e la partecipazione da titolare ai Mondiali di Germania 2006 – dopo aver conquistato l’anno precedente la Confederations Cup con tanto di titolo di capocannoniere con 5 reti –, inizia per lui una lenta parabola discendente.

Ciò non toglie che, in quella vittoriosa edizione della Copa America, Adriano si fosse ampiamente meritato l’appellativo di “imperatore per lui coniato dai media del Belpaese.

IL TRIONFO A SORPRESA DEL BAYER UERDINGEN NELLA FINALE 1985 DELLA DFB-POKAL

Il Bayer 05 Uerdingen festeggia la DFB-Pokal – da rp-online.de

articolo di Giovanni Manenti

La Coppa di Germania di calcio non vanta le stesse tradizioni della FA Cup inglese, risalendo la prima edizione al 1935, allorchési chiamava “Tschammer-Pokal”, per poi assumere l’attuale definizione di DFB-Pokal (ovvero Deutscher Fussball Bund Pokal, Coppa della Federazione calcistica tedesca) dalla ripresa della manifestazione dopo i tragici eventi del secondo conflitto mondiale, avvenuta nella stagione 1952-’53.

Ed, anche rispetto all’omologa competizione inglese, vi è una minor ripartizione di successi, dato che a fare la “parte del leone” altri non è che il Bayern Monaco, capace di raggiungere la finale in ben 24 occasioni, con un record impressionante di 20 affermazioni a fronte di sole quattro sconfitte.

In un tale contesto – un po’ come accade nel Belpaese con la Juventus, che vanta 14 vittorie e 7 sconfitte nelle 21 finali di Coppa Italia disputate – vi renderete conto che fanno molto più notizia le poche occasioni che la corazzata bavarese non è riuscita ad alzare il trofeo rispetto ai successi, soprattutto allorché la prima volta che ciò le accade non sia certo per mano di un “top club”, bensì di un outsider che, nell’occasione, si aggiudica quello che a tutt’oggi rappresenta l’apice della propria storia.

Città di oltre 200mila abitanti posta nella Renania settentrionale, non molto distante dal confine con l’Olanda, Krefeld vanta un unico club calcistico, ovvero l’Uerdingen 05 fondato nel 1905 dal nome di un sobborgo cittadino, che nel 1953 si fonda con il Bayer AG Uerdingen, la società sportiva dei dipendenti del colosso farmaceutico Bayer AG, dando così vita al Fussball Club Bayer 05 Uerdingen.

Non è che tale importante sponsorizzazione dia immediatamente i suoi frutti, visto che la formazione continua a militare per lungo tempo nei campionati dilettanti e solo nel 1971 ottiene la promozione nella Regionalliga West, che all’epoca era una sorta di seconda divisione fra diversi campionati divisi territorialmente, le cui vincenti poi davano luogo ad una fase finale per l’accesso alla Bundesliga.

L’escalation da lì in avanti è peraltro veloce, con il Bayer 05 a classificarsi terzo nel biennio 1973-’74 così da acquisire il diritto di far parte della neonata 2.Bundesliga – suddivisa in Gruppo Nord e Sud –, con tanto di secondo posto alle spalle dell’Hannover 96 a conclusione della stagione 1974-’75 ottenendo la promozione in Bundesliga,

L’esordio nel massimo torneo tedesco (occidentale all’epoca) si conclude amaramente con il 18esimo ed ultimo posto e conseguente immediata retrocessione, per poi farvi ritorno nel 1979 – promosso quale secondo del Gruppo Nord, curiosamente alle spalle del Bayer Leverkusen, altra formazione sponsorizzata dal gigante dell’industria farmaceutica – e subire una seconda retrocessione due anni più tardi.

Esperienze comunque utili ad acquisire la necessaria esperienza affinché, dopo una terza promozione al termine della stagione 1982-’83 – in una 2.Bundesliga riformata ad un solo Girone Unico – classificandosi alle spalle di Waldhof Mannheim e Kickers Offenbach, il Bayer 05 Uerdingen possa vivere il periodo migliore dell’intera sua storia.

Conclusa la successiva Bundesliga in decima posizione senza mai rischiare di essere coinvolto nella lotta per non retrocedere, la dirigenza alterna il tecnico Timo Konietzka con il 50enne Karl-Heinz Feldkamp (uno di quelli che in Italia si definirebbero “allenatori di provincia”), ancorché reduce da positive esperienze alla guida del Kaiserslautern, con due terzi ed altrettanti quarti posti in campionato, finalista della DFB-Pokal nel 1981 e semifinalista in Coppa Uefa l’anno seguente.

Feldkamp eredita un organico che ha i suoi punti di forza nell’estremo difensore Werner Vollack, nel difensore centrale e capitano Matthias Herget e nei fratelli Friedhelm e Wolfgang Funkel, il primo e maggiore dei quali già da lui allenato per un biennio al Kaiserslautern, mentre il secondo raggiunge il congiunto nel corso del mercato estivo, proveniente dal Rot-Weiss Oberhausen.

Sessione di mercato che porta alla corte del tecnico anche il difensore Karl-Heinz Wohrlin e la coppia di attaccanti formata dal 25enne Wolfgang Schafer, prelevato dall’Union Solinge,n e dall’islandese Larus Gudmundsson, viceversa proveniente dai belgi del Waterschei.

Torneo di coppa che si inaugura ad inizio settembre 1984 dopo che si sono già disputate le prime due giornate di Bundesliga – che hanno visto l’Uerdingen esordire con una sconfitta di misura (0-1) su terreno del Werder Brema e quindi imporsi 2-1 in rimonta sul Borussia Dortmund –, con il sorteggio a non creare eccessivi problemi, visto l’abbinamento con l’Oldenburg, facilmente eliminato 6-1 con doppietta di Helmut Gulich.

Più ostico il secondo turno, ancorché disputato davanti al proprio pubblico, in quanto oppone al Bayer 05 i pari categoria del Fortuna Dusseldorf, finalisti in tre edizioni (1978-’80) consecutive aggiudicandosi il trofeo nelle ultime due occasioni, per una sfida che si risolve nella ripresa grazie ai centri di Schafer ed Horst Feilzer, ai quali gli ospiti oppongono la sola tardiva replica di Bockenfeld, in un turno che vede le eliminazioni di Colonia (1-2 ad Hannover) e Borussia Dortmund, che cede 2-3 allo Schalke 04 nel replay.

Qualificatosi pertanto per gli ottavi, gli incontri si disputano nella settimana di Natale 1984 prima della sosta invernale e, stavolta, l’urna è quanto mai benevola per lo Uerdingen, che peraltro deve attendere i minuti conclusivi per imporsi 2-0 (reti di Herget e Schafer) sul campo del Geislingen, mentre escono di scena lo Schalke (anch’esso vittima 0-1 dell’Hannover 96) e lo Stoccarda, eliminato ai calci di rigore dal Saarbrucken.

Un Bayer che in Bundesliga si sta facendo onore, avendo chiuso il girone di andata al quarto posto con 21 punti a pari merito con il Borussia Monchengladbach ed a quattro lunghezze dal Bayern capolista e quanto mai desideroso di tornare a sollevare il “Meisterschale” dopo tre anni di vacche magre, periodo che in Baviera viene considerato come sin troppo lungo.

Il torneo della DFB-Pokal riprende il 16 febbraio 1985 con la disputa dei primi due incontri dei quarti che vedono il Borussia Monchengladbach imporsi 2-1 sul campo del Soilingen ed il Saarbrucken porre fine all’avventura dell’Hannover grazie al singolo acuto di Blattel a 15’ dal termine, mentre è posticipata al 12 marzo la sfida che vede il Bayer Uerdingen ospitare un Werder Brema ancora in lizza per il titolo della Bundesliga.

Per la formazione di Feldkamp si tratta dell’occasione di eguagliare il miglior percorso in coppa della propria storia – risalente alla stagione 1978-’79 allorché, pur militando in 2.Bundesliga, raggiunse le semifinali solo per cedere 0-1 opposto all’Hertha Berlino –, obiettivo che non si lascia sfuggire per la gioia dei 15mila che riempiono il “Grotenburg Stadion”, grazie ad una prova quanto mai orgogliosa che le consente, concluso il primo tempo in svantaggio per la rete siglata da Reinders in chiusura, di ribaltare l’esito con il centro in avvio di ripresa di Herget ed il sigillo di Gudmundsson poco prima dello scoccare del 10’ e quindi resistere alle offensive avversarie.

Per completare il quadro delle semifinaliste manca la vincente dell’ultimo incontro slittato al 26 marzo 1985 che oppone al Bayer Leverkusen il Bayern, il cui risultato viene orientato a favore dei bavaresi dalla doppietta di Roland Wohlfatrth nel corso della prima frazione ed arrotondato nel secondo tempo da Mathy dopo che il sudcoreano Cha Bum-kum aveva ridato qualche speranza ai padroni di casa.

Il successivo sorteggio per le semifinali in programma il 6 aprile consente al Bayer 05 di evitare i due “clienti peggiori”, proponendo la sfida in campo esterno contro il Saarbrucken, che viene risolta da una rete del terzino Norbert Brinkmann a poco più di un quarto d’ora dal termine per la cocente delusione dei 32mila che assiepavano le tribune del “Ludwigspark”.

Quanto mai equilibrata, viceversa, la sfida fra le due “avversarie storiche” del decennio precedente Bayern e Borussia, che attira oltre 50mila spettatori all’“Olympia Stadion” del capoluogo bavarese e che si prolunga ai tempi supplementari prima che a rompere l’equilibrio sia un calcio di rigore trasformato dal danese Soren Lerby, da un anno a Monaco proveniente dall’Ajax Amsterdam.

Appuntamento quindi per l’atto conclusivo a domenica 26 maggio 1985 all’“Olympia Stadion” di Berlino, che propria da questa edizione assume la veste di sede fissa per le finali della DFB-Pokal, con il Bayern non ancora sicuro del titolo della Bundesliga, vantando due soli punti (46 a 44) di margine sul Werder Brema a due turni dalla conclusione del torneo.

Sicuramente, non aver altro obiettivo che la finale di coppa può essere stato un vantaggio non da poco per Herget & Co., certo che solo se si confrontano le formazioni delle due squadre non si può che verificare una differenza sulla carta abissale, vista la presenza nell’organico allenato da Udo Lattek di fior di campioni quali Dremmler, Augenthaler, Matthaus, Lerby, Wohlfarth e Dieter Hoeness.

Ma il calcio, si sa, non è nuovo a regalare sorprese, anche se il destino delle “aspirine” sembra segnato non appena Dieter Hoeness porta in vantaggio il Bayern dopo appena 8’ di gioco con un chirurgico diagonale di sinistro che manda la palla ad infilarsi nell’angolo basso alla sinistra di Vollack.

Colpito a freddo, il Bayer 05 ha il grande merito di riequilibrare immediatamente le sorti dell’incontro per merito di Feilzer che, lasciato colpevolmente solo sulla parte destra dell’area di rigore, raccoglie indisturbato un cross dalla sinistra di Buttgereit prolungato di testa da Augenthaler per fulminare con un preciso destro al volo Aumann per il punto dell’1-1 con cui le due squadre guadagnano gli spogliatoi per l’intervallo.

La seconda svolta dell’incontro si ha in avvio di ripresa, allorché Dremmler interviene duramente su Gudmundsson, fallo che il direttore di gara Werner Fockler giudica meritevole di espulsione, circostanza che induce Lattek a correre ai ripari inserendo Beierlorzer in luogo dell’attaccante Wolhlfarth, ma che di contro dà ulteriore slancio agli avversari.

I quali capitalizzano la superiorità numerica a metà ripresa, allorché un passaggio filtrante di Buttgereit (ancora lui!) smarca Schafer a centro area per consentire all’ala di aggiustarsi il pallone e quindi superare Aumann in disperata uscita per il punto del definitivo 2-1, con il Bayern, spintosi in avanti alla ricerca del pari, a rischiare ulteriore capitolazione con Friedlhelm Funkel a sparare alto sopra la traversa una facile deviazione dall’altezza del dischetto.

Al triplice fischio finale è incontenibile la gioia dei supporters dell’Uerdingen che avevano affrontato la trasferta di Berlino cullando quella che ritenevano essere solo una tenue speranza e che, viceversa, si è appena trasformata in una splendida realtà, mentre giocatori, tecnici e tifosi bavaresi ancora sono a chiedersi come abbiano potuto, dopo 7 finali tutte vittoriose, arrendersi proprio di fronte ad uno dei più modesti, almeno sulla carta, avversari.

Chissà se a Monaco avranno mai sentito parlare della leggenda di Davide contro Golia

L’IMPRESA DELLO STRASBURGO, CAMPIONE A SORPRESA DELLA DIVISION1 1979

Lo Strasburgo campione di Francia 1979 – da francebleu.fr

articolo di Giovanni Manenti

L’Alsazia è una regione al confine fra Francia e Germania che è stata, nel corso dei secoli, a lungo contesa dai due paesi, tant’è che – per restare alla storia più recente –, dopo essere divenuta regione transalpina nel 1792, torna tedesca con il Trattato di Francoforte del 1871, per poi far parte del Trattato di Versailles del 1919 a conclusione della Grande Guerra che la restituisce alla Francia.

Ma non è ancora finita, poiché nel corso del secondo conflitto mondiale, con l’occupazione del territorio francese da parte delle truppe naziste, lAlsazia è tedesca sino al 1945, allorché, a conclusione delle ostilità, torna definitivamente alla Francia e, ad oggi, il francese è la lingua largamente più diffusa nella regione.

Vi chiederete cosa c’entri tutto questo con un articolo che tratta di calcio, ed in particolare delle vicende del club del capoluogo Strasburgo, ovvero il “Racing Club de Strasbourg Alsace”, ultima denominazione assunta a far tempo dal 2012, ed invece vi sono due validi motivi, il primo dei quali, ovviamente, legato al militare, da parte di una società fondata nel 1906 come “Fussballclub Neudorf”, nei campionati tedeschi o francesi a seconda della collocazione politica.

Solo nel 1919, difatti, con l’affiliazione alla FFF (Federation Française de Football) nasce il Racing Club de Strasbourg, che ottiene la promozione in Division1 nel 1934 per poi disputare i due successivi tornei di vertice, sfiorando il titolo l’anno seguente – secondo ad una sola lunghezza (48 punti a 47) dal Sochaux campione – e classificandosi terzo nel 1936.

Ma la seconda circostanza – sia pur legata a ben meno cruente questioni meramente sportive – deriva dal fatto che anche lo Strasburgo vive, calcisticamente parlando, vicende alterne che lo portano a picchi di notorietà cui fanno seguito cadute vertiginose, con una sorta di “va e vieni” dalla prima alla seconda divisione transalpina.

Alla ripresa dell’attività dopo i tragici eventi del secondo conflitto mondiale, difatti, ecco ritrovare uno Strasburgo competitivo tanto da piazzarsi secondo nel 1947, a quattro punti di distacco (53 a 49) dal Roubaix campione, nonché aggiudicarsi l’edizione 1951 della Coupe de France superando 3-0 in finale il Valenciennes – primo trofeo in assoluto nella storia del club –, salvo concludere l’anno seguente all’ultimo posto il campionato di Division1, anche in questo caso prima retrocessione subita.

Niente paura, poiché nel 1953 lo Strasburgo ottiene l’immediata risalita assieme a Tolosa e Monaco, per poi vivere una serie di “up and down” a fine decade che lo vede retrocesso nel 1957, promosso l’anno seguente, ancora retrocesso nel 1960 e nuovamente promosso a conclusione del torneo successivo.

Finalmente, gli anni ’60 forniscono una certa stabilità e continuità di piazzamenti, impreziositi dalla conquista di una seconda Coupe de France nel 1966 (1-0 in finale al Nantes) e dall’essersi ben comportato anche a livello internazionale, avendo raggiunto i quarti di finale dell’edizione 1965 della Coppa delle Fiere dopo essersi permesso di eliminare (2-0 e 0-1) il Milan al primo turno ed il Barcellona (0-0, 2-2, 2-2 allo spareggio e sorteggio) agli ottavi, prima di cedere al Manchester United.

Altalena che, peraltro, riprende con il cambio di decade, e nel 1971 il club alsaziano retrocede all’ultima giornata, complice la sconfitta per 6-3 sul campo dei campioni dell’Olympique Marsiglia ed il contemporaneo successo del Bastia sul Metz, salvo anche stavolta risalire immediatamente a conclusione della successiva stagione.

Non è indubbiamente un periodo da ricordare, quello degli anni ’70 per lo Strasburgo, che vive un successivo triennio anonimo culminato con una nuova retrocessione nel 1976, dalla quale nessuno dei più accaniti tifosi del Racing avrebbe neppure lontanamente immaginato di festeggiare la conquista del titolo a tre anni di distanza.

E, come molto spesso accade in club non di “prima fascia”, tutto questo ha un nome, ovvero quello dell’ex-giocatore Gilbert Gress, che ne aveva vestito i colori durante gli anni ’60 per poi concludervi la carriera nel biennio 1974-’75, dopo aver ottenuto i suoi migliori risultati dall’attività agonistica svolta in Germania allo Stoccarda ed all’Olympique Marsiglia.

A due anni dall’aver attaccato le scarpe al chiodo, pertanto, periodo in cui ha fatto esperienza guidando gli svizzeri dei Neuchatel Xamax, ecco che nell’estate 1977 la dirigenza alsaziana offre a Gress la panchina di uno Strasburgo che, come di consueto diremmo, ha ottenuto l’ennesima, immediata risalita dopo aver dominato il Girone B della Division2, mentre nel Girone A a conquistare la promozione è stato il Monaco.

Formazione monegasca – anch’essa sufficientemente abituata a tali sbalzi di prestazioni – che nel successivo torneo si aggiudica da neopromossa il suo terzo titolo della Division1 grazie ai 29 centri dell’italo-argentino Delio Onnis, stagione che vede il lavoro di Gress premiato con un significativo terzo posto a tre sole lunghezze di distanza dai campioni, mettendo in mostra un gioco offensivo capace di realizzare 70 reti in cui emerge Albert Gemmrich, autore di 21 segnature.

Il buon piazzamento induce la società a non intervenire eccessivamente sul mercato, visto che le principali operazioni sono costituite dagli acquisti del centrocampista Roger Jouve dal Nizza e dell’attaccante Toko dal Bordeaux, i quali forniranno peraltro un contributo limitato nel corso della stagione, con il solo Jouve a collezionare 26 presenze.

Sicuramente più importante l’aver mantenuto l’ossatura base, ad iniziare dall’esperto estremo difensore Dominique Dropsy, proseguendo con il difensore Raymond Domenech (futuro commissario tecnico della Nazionale), il centrocampista Francis Piasecki e Gemmrich, così come l’impronta tattica di Gress che coinvolge i propri giocatori in tutte e due le fasi, offensiva e difensiva, incrementandone altresì la preparazione atletica e fissando precise regole riguardo al loro stile di vita.

E, per vivere quella che poi diviene una “stagione di gloria”, altre due componenti fondamentali sono la fortuna di non subire grossi infortuni, così da avere il più volte possibile a disposizione la formazione base – cosa che avviene con ben 8 giocatori a collezionare più di 33 presenze –, nonché, soprattutto, un inizio favorevole di campionato, circostanza quest’ultima che lo Strasburgo mette come meglio non potrebbe in pratica.

Come di prassi, il campionato francese è il primo a prendere il via fra i torni più importanti del Vecchio Continente, con la formazione di Gress a scendere in campo il 19 luglio 1978 per affrontare allo “Stade de la Meinau” l’Olympique Lione, regolato con il minimo scarto grazie alla rete di Jacky Vergnes allo scoccare dell’ora di gioco, per poi cogliere due significative affermazioni alla terza giornata (2-1 sul Nantes, con Gemnmrich e Roland Wagner a segno) e, in particolare, nella successiva, allorché si impone 2-0 sul campo dei campioni in carica del Monaco, parole e musica di Piasecki ed ancora Gemmrich.

Questo positivo avvio, che prosegue con un percorso immune da sconfitte, fa sì che alla 12esima giornata, allorché in Alsazia cade un’altra pretendente al titolo quale il Saint-Etienne (2-1 che porta ancora le firme di Gemmrich e Piasecki), lo Strasburgo guidi la classifica in solitario con 20 punti (frutto di 8 vittorie e 4 pareggi, 22 reti fatte ed appena 6 subite) e 5 lunghezze di margine su Monaco e Sochaux, mentre il trio composto da Bordeaux, Olympique Lione e Saint-Etienne insegue a 6 punti di distacco.

L’appetito vien mangiando”, recita un vecchio adagio, e lo Strasburgo ci prende gusto a rovinare i piani delle altre pretendenti al titolo, cadendo per la prima volta nell’ultimo turno del girone di andata, sconfitto 1-2 al “Parc des Princes” dal Paris Saint-Germain dopo aver chiuso il primo tempo in vantaggio, mantenendo comunque il comando della graduatoria con tre punti (29 a 26) di vantaggio sul Monaco e 5 sul Saint-Etienne, per poi andare alla sosta invernale dopo la 24esima giornata conservando lo stesso margine (35 a 32) sulla coppia formata da Saint-Etienne e Nantes, con quest’ultimo ad aver inflitto la seconda sconfitta (0-3) agli alsaziani che, viceversa, replicano il successo sul Monaco (2-1, doppietta di Piasecki) ad inizio dicembre 1978.

Con la ripresa del torneo prevista a fine gennaio 1979, ecco che lo Strasburgo sfrutta l’identico calendario che gli era stato favorevole all’andata, portando a quattro i propri punti di vantaggio (44 a 40) sulle due inseguitrici a conclusione del 29esimo turno, con il successivo a prevedere il confronto diretto al “Geoffroy Guichard” il 28 marzo 1979.

Certo, “les Verts” non sono più lo squadrone capace di dominare il decennio precedente, ma risultano pur sempre formazione di tutto rispetto, così da riuscire a far loro l’incontro con un 2-0 “targato” Larios e Jean Marie Elie per effetto del quale, a seguito della contemporanea vittoria esterna del Nantes a Metz, il distacco si dimezza a soli due punti.

Entrati nelle ultime 8 giornate e con una rosa oggettivamente inferiore a quella delle rivali, lo Strasburgo fatica nel turno successivo (1-1 interno con il Bordeaux), vedendo ridotto il proprio margine ad una sola lunghezza (45 punti a 44) rispetto al Nantes – mentre il Saint Etienne crolla 0-3 a Lille –, per poi trovare un insperato alleato nel Bastia che, superando 1-0 “les Canaris”, consente a Gress ed ai suoi (corsari 2-1 a Sochaux) di ristabilire un distacco di tre punti a soli 6 turni dalla conclusione.

Vantaggio immutato dopo la giornata seguente – 2-0 interno sul Bastia e contemporanee affermazioni per 1-0 del Nantes sul Paris Saint-Germain e del Saint-Etienne nella capitale sul Paris FC –, ma che si riduce nuovamente ad una lunghezza (49 a 48, stavolta su “les Verts”), per la sconfitta dello Strasburgo al “Velodrome (0-1 contro l’Olympique Marsiglia), in quanto il Saint-Etienne si impone 1-0 sul Metz ed il Nantes non va oltre l’1-1 esterno a Valenciennes.

Un “mezzo passo falso” determinante, quello del Nantes, visto che nel turno successivo il Valenciennes viene strapazzato (5-0, doppietta di Gemmrich) dalla capolista, ancorché le altrettante larghe vittorie delle inseguitrici lascino ancora tutto possibile a tre sole giornate dal termine, con una classifica che recita: Strasburgo p.51, Saint-Etienne p.50 e Nantes p.49.

Una tappa decisiva si verifica la giornata seguente, poiché nonostante il pari esterno a reti bianche degli alsaziani a Nancy, il Nantes fa altrettanto a Nizza (venendo raggiunto sull’1-1 a 15’ dal termine) ed il Saint-Etienne cade 1-2 a Bordeaux, ragion per cui sono ora due le lunghezze da amministrare nei restanti 180’ il cui programma prevede la gara interna con il Paris Saint-Germain e la trasferta a Lione.

Nel campionato transalpino, in caso di arrivo a pari punti, la discriminante è costituita dalla differenza reti che vede lo Strasburgo in ritardo (+34) rispetto sia al Nantes che al Saint-Etienne che vantano un differenziale a loro favore di +41 e +37 rispettivamente, ragion per cui per assicurarsi il titolo occorre conquistare almeno 3 punti nelle ultime due giornate.

Compito che inizia a materializzarsi allorché il 29 maggio 1979, davanti ai 30mila spettatori che gremiscono le tribune dello “Stade de la Meinau”, Jean Jacques Marx sblocca il risultato quando non si è ancora concluso il primo giro di lancette, con Wagner a siglare il raddoppio al 18’ e Gemmrich a mettere il sigillo con il punto del definitivo 3-0 prima ancora dello scoccare dell’ora di gioco, rendendo vani il 5-1 del Nantes sul Lione ed il 4-0 del Saint-Etienne sull’Angers.

Resta l’ultimo ostacolo, ovvero strappare almeno un punto sul campo di un Olympique Lione che non ha più nulla da chiedere al torneo, mentre il Nantes è impegnato a Laval ed il Saint-Etienne a Bastia, con i supporter de “les Verts” a preferire recarsi allo “Stade de Gerland” per “tifare contro” la capolista piuttosto che sobbarcarsi il viaggio in Corsica.

Speranza peraltro vana, visto che, dopo un’iniziale fase di supremazia da parte dei padroni di casa, una doppietta di Wagner nel giro di 6’ poco prima della mezzora incanala il match dalla parte dei più forti, che nella ripresa si dedicano all’accademia, arrotondando il punteggio con il punto del definitivo 3-0 siglato da Yves Ehrlacher.

Al ritorno in treno, giocatori e tecnico – che, per inciso, era stato premiato a fine anno solare 1978 come “entraineur français de l’année” – vengono accolti trionfalmente alla stazione per quello che, ad oggi, resta, oltre l’unico, anche il risultato di maggior prestigio nella storia del club alsaziano.

Beato chi ha avuto la fortuna di assistervi

IL “PERIODO D’ORO” DELLO SPARTAK TRNAVA A CAVALLO DEGLI ANNI ’70

Una formazione dello Spartak Trnava – da facebook.com

articolo di Giovanni Manenti

Nel campionato cecoslovacco di calcio – uno dei più antichi, avendo visto la nascita sin dal 1896 e concluso al termine della stagione 1992-’93 a causa della divisione politica fra Repubblica Ceca e Slovacchia – la superiorità dei club della capitale Praga è quantomeno imbarazzante, essendosi aggiudicati ben 51 titoli – dei quali 24 appannaggio dello Sparta, 14 dello Slavia ed 11 del Dukla –, così da lasciare le briciole alle avversarie.

A cercare di arginare, per quanto possibile, una tale superiorità, hanno provato le formazioni di Bratislava – divenuta dal 1992 la capitale della Slovacchia indipendente – con 9 affermazioni al proprio conto, la quasi totalità (8) delle quali ottenute dallo Slovan che, non per altro, sta attualmente dominando la scena nel proprio paese, essendosi già imposto in 13 occasioni.

Vi è però un “periodo storico” in cui anche le “grandi della capitale” devono fare buon viso a cattiva sorte, vale a dire per oltre un decennio (dal 1967 al 1981), in cui su 14 tornei se ne aggiudicano appena due (con il Dukla nel 1977 e nel 1979), e, in particolare, devono subire la rivincita dei club slovacchi, circostanza su cui può aver inizialmente inciso anche la “Primavera di Praga”, poi sedata nell’agosto 1968 dall’intervento militare sovietico.

Sta di fatto che, dopo che l’inizio degli anni ’60 aveva fatto risplendere la stella del Dukla – campione per un quadriennio (1961-’64) consecutivo e nuovamente nel 1966 – e l’affermazione dello Sparta nel 1967, per 8 stagioni lo “scettro del potere” passa alle formazioni slovacche e, se non fa sensazione l’aver raggiunto il vertice da parte dello Slovan, oltretutto l’unico club cecoslovacco a conquistare un trofeo europeo – facendo sua l’edizione 1969 della Coppa delle Coppe superando 3-2 il favorito Barcellona in finale –, ben altra sorpresa destano le imprese della squadra protagonista del nostro racconto odierno.

Questo è dovuto alle dimensioni dello Spartak Trnava, società fondata nel 1923 come TSS Trnava a seguito della fusione fra il SK Cechie ed il CSSK, salvo poi, ad avvenuta presa del potere politico da parte del comunismo, trasformarsi in TJ Kovosmalt in rappresentanza dell’industria metallurgica, prima di divenire Spartak a tutti gli effetti a far tempo dal 1952.

Città di poco più di 65mila abitanti, Trnava deve la sua popolarità a livello sportivo proprio grazie a quanto sia riuscito a compiere lo Spartak nel suo indiscutibile “periodo d’oro”, contrassegnato dalla conquista di cinque titoli (1968 e 1969 e dal 1971 al 1973) della I Liga in sei anni (e giungendo secondo nel 1970), oltre ad aggiudicarsi due edizioni (1967 e 1971) della Ceskoslovensky Pohar, ovvero la coppa nazionale.

Ed è proprio quella stagione 1966-’67 che apre il ciclo delle annate vincenti dello Spartak, in quanto ottiene i primi successi della sua storia, ovvero la conquista della coppa nazionale superando (2-4 e 2-0) lo Sparta Praga nella doppia finale ed il trionfo nell’edizione 1967 della Mitropa Cup, dove a restare sconfitti (3-2 ed 1-3) nel doppio appuntamento conclusivo sono gli ungheresi dell’Ujpest Dozsa.

Quando una compagine di una piccola città assurge ai vertici si è soliti parlare di “miracolo calcistico” e, molto spesso, alla base di questo vi è un tecnico capace di assemblare un gruppo vincente, ed anche in questo caso la regola non fa eccezione, trattandosi nella specie di Anton Malatinsky che, dopo avervi militato da giocatore in quanto nativo di Trnava, vi inizia la carriera da allenatore guidando la squadra dal 1956 al 1960.

C’è però da avere a che fare con un regime politico che mal gradisce i dissidenti (od almeno i non allineati), ragion per cui l’aver aiutato degli amici esuli a fuggire costa al tecnico l’arresto e la prigionia, circostanza che lo porta a scrivere dal carcere ai dirigenti dello Spartak esortandoli a non cedere i migliori giocatori attraverso una promessa solenne “seguite il mio consiglio e fra qualche anno saremo campioni!”…

E così è, rimesso in libertà, Malatinsky riprende il suo posto nel 1963 con la squadra in seconda divisione e, dopo aver ottenuto la promozione, ecco giungere i primi due titoli, ideale “trampolino di lancio” per poter mantenere la promessa a suo tempo fatta.

Certo, un allenatore capace di plasmare un gruppo di giocatori ed infondere allo stesso uno spirito vincente è importante, ma difficilmente si ottengono risultati in carenza di “materia prima”, e lo Spartak può vantare tra le sue file una “stella” di prima grandezza del calcio cecoslovacco di questo periodo, vale a dire Jozef Adamec che vi si era trasferito nel gennaio 1966 proveniente dallo Slovan Bratislava che, probabilmente, rimpiangerà non poco la sua cessione.

Il fatto è che Adamec, all’epoca 24enne e che proprio nello Spartak aveva esordito debuttando appena 18enne in Nazionale, non aveva espresso granché del suo potenziale nei successivi tornei vissuti con il Dukla Praga (pur aggiudicandosi due titoli, nel 1962 e nel 1963, consecutivi della I Liga) e lo Slovan, e solo avendo ritrovato Malatinsky riesce ad emergere, visto che conclude il torneo 1967 laureandosi capocannoniere con 21 reti, suo massimo in carriera per singola stagione.

Campionato che aveva visto lo Spartak concludere al terzo posto con 34 punti, ad una lunghezza dallo Slovan secondo e a 5 punti dallo Sparta Praga campione, così da presentarsi ai nastri di partenza del torneo 1967-’68 con il calendario a proporre la trasferta a Bratislava contro lo Slovan, peraltro conclusa con una sconfitta per 0-2 a “vendicare” l’affermazione dello Spartak nell’ultimo turno del precedente.

Uno Spartak che deve altresì fare i conti con il suo esordio in uno dei tre principali tornei europei, ovvero la Coppa delle Coppe dove al primo turno è abbinato agli svizzeri del Losanna, superato ribaltando il 2-3 dell’andata in terra elvetica (sprecando un vantaggio di due reti) con il 2-0 al ritorno a firma Adamec e Martinkovic.

Superare il secondo turno avrebbe voluto dire dare appuntamento ai quarti in programma nella primavera 1968, ma l’ostacolo costituito dalla Torpedo Mosca si dimostra insormontabile, subendo (0-3 ed 1-3) una dura lezione, utile comunque a fare esperienza e potersi poi concentrare solo sul campionato dove, a conclusione del girone di andata a fine novembre 1967, lo Spartak si trova in seconda posizione appaiato allo Slovan ed all’Internacional Bratislava, a due sole (18 punti a 16) lunghezze di distacco dallo Jednota Trencin.

A questo punto della stagione, lo Spartak ha già subito quattro sconfitte – oltre a quella con lo Slovan, altre tre e sempre esterne con Dukla (1-2), Internacional Bratislava (2-3) e Jednota (1-3) –, ed il tracollo interno per 0-3 contro lo Slovan alla ripresa del torneo a metà marzo 1968 non depone certo a favore della formazione allenata da Malatinsky che, però, da allora in avanti, mette a frutto come meglio non potrebbe il duro lavoro svolto nel periodo invernale.

Aggiustata la fase difensiva, nelle successive 7 giornate lo Spartak subisce una sola rete (che peraltro costa il pari per 1-1 a Teplice contro l’Union) e, soprattutto, mette in fila 5 vittorie e due pari che lo portano, a soli 5 turni dal termine, al comando della classifica con 28 punti e tre di margine sullo Jednota e quattro sullo Slovan.

Il pari per 3-3 a Praga contro lo Sparta e la successiva affermazione per 2-1 sullo Zilina fanno sì che si possa compensare la sconfitta per 2-4 a Kosice alla terz’ultima giornata, per poi garantirsi il titolo con un turno d’anticipo superando 2-0 lo Jednota nello scontro diretto, per una classifica finale che recita: Spartak p.35, Slovan e Jednota p.30, con in più la “ciliegina sulla torta” di Adamec confermatosi capocannoniere pur con il minor numero di 18 centri.

Abbiamo insistito maggiormente sul primo dei cinque titoli conquistati dallo Spartak per due serie di motivi, ovvero che, stante la situazione politica venutasi a creare nel paese dopo l’invasione militare sovietica, Malatinsky pensa bene di “cambiare aria” e, rassegnate le dimissioni, si accasa per un triennio all’Admira Wacker nella confinante Austria, e poi in quanto il successo in campionato consente al club di farsi un nome anche a livello internazionale, grazie alla partecipazione al più prestigioso dei tornei continentali, la Coppa dei Campioni.

Sino ad allora, una sola formazione dell’Europa dell’est era riuscita ad arrivare in fondo ad una manifestazione monopolizzata per le sue prime 11 edizioni dai club latini (Spagna, Italia e Portogallo), vale a dire il Partizan Belgrado, sconfitto 1-2 dal Real Madrid nella finale 1966 disputata a Bruxelles, e l’esordio della squadra cecoslovacca avviene contro una “confinante”, ovvero la Steaua Bucarest.

L’andata nella capitale rumena è una sorta di incubo, con i padroni di casa a portarsi sul 3-0 prima che una rete di Kuna al 75’ definisca la sconfitta per 1-3 rimediabile al ritorno, dove i ragazzi del nuovo tecnico Jan Hucko (proveniente dallo Slovan) esagerano imponendosi 4-0 con Adamec “eroe di serata” con una tripletta e le due reti decisive siglate nell’ultimo quarto d’ora.

Avvantaggiato dal sorteggio che al secondo turno lo oppone ai modesti finlandesi del Reipas Lahti, letteralmente “spazzati via” con un 16-2 (!!!) complessivo in cui un po’ tutti fanno a gara ad andare a segno, ecco che lo Spartak torna in campo a metà febbraio per i quarti, con l’urna a sorriderle ancora abbinandolo ai greci dell’AEK Atene, sorteggio non agevole ma niente al confronto degli altri Ajax-Benfica, Celtic-Milan e Manchester United-Rapid Vienna.

La fortuna bisogna però anche meritarsela, e lo Spartak – in attesa di riprendere il campionato dopo aver concluso l’andata al comando con quattro punti (19 a 15) di margine sullo Slovan – non riesce a “chiudere i conti” nel match di andata, vinto 2-1 (di Jarabek e Kabat le reti), in vista del ritorno nella bolgia della capitale ellenica, dove però risulta di fondamentale importanza il punto messo a segno a metà primo tempo da Svec, difeso nella ripresa consentendo ai greci solo di addivenire al pari con Papaioannu.

Rimaste in lizza Milan, Manchester ed Ajax, il sorteggio oppone lo Spartak alla nascente “squadra dei sogni” olandese, dove già brilla la stella del giovane fuoriclasse Johan Cruijff, che fa valere la propria legge nel match di andata allo “Stadio Olimpico” di Amsterdam con un 3-0 che porta la firma dello stesso Cruijff, Swart e Keizer.

Il ritorno è previsto per il pomeriggio di giovedì 29 aprile 1969 allo “Spartak Stadium” gremito al limite della propria capienza di 23mila spettatori (più di un terzo degli abitanti di Trnava), e per Cruijff & Co. si tratta di una delle peggiori trasferte della propria storia, in particolare per il “trattamento” riservato al futuro “Pallone d’Oro”, costretto a lasciare il campo a metà primo tempo.

Privi del loro leader, gli olandesi si smarriscono e poco prima della mezzora subiscono la rete di Ladislav Kuna, poi replicata ad inizio ripresa da parte dello stesso attaccante, e quindi venire letteralmente sottoposti ad una serie martellante di attacchi che producono un conto totale di 15 angoli a zero, decine di palle-gol, un paio di salvataggi sulla linea di Suurbier ed alcuni interventi miracolosi dell’estremo difensore Bals che, a fine gara, con la qualificazione alla finale salvata per un pelo, ammetterà di non aver mai atteso così tanto il fischio finale.

Bissato agevolmente (con 39 punti in classifica e 5 di vantaggio sullo Slovan) il titolo della I Liga, lo Spartak abdica la stagione seguente in favore degli acerrimi rivali che si impongono (43 punti a 40) con tre lunghezze di margine, ma con Adamec ad aggiudicarsi la sua terza palma di capocannoniere con 16 centri e la soddisfazione di vedere quattro suoi giocatori – Dobias, Hagara, Kuna ed Adamec – selezionati e disputare da titolari le fasi finali dei Mondiali di Messico 1970.

Eliminato al secondo turno della Coppa dei Campioni 1970 ed al terzo della Coppa delle Fiere 1971, lo Spartak – tornato campione cecoslovacco nel 1971 con quattro punti (40 a 36) di vantaggio sul VSS Kosice – esce di scena all’esordio nell’edizione 1972 della Coppa dei Campioni, pagando contro la Dinamo Bucarest (0-0 e 2-2) la norma che assegna valore doppio alle reti realizzate in trasferta, con la segnatura che vale il passaggio del turno siglata all’88’ da Popescu, stagione che vede però il ritorno in panchina di Malatinsky, ora che le acque in patria si sono calmate.

Ed ecco, pertanto, che il tecnico ha l’opportunità di “portare a termine il lavoro”, conquistando il suo secondo titolo a livello personale, il più sofferto dei quattro sinora nella bacheca del club, con lo Spartak impegnato in un lungo “testa a testa” con lo Slovan che lo vede presentarsi all’ultima giornata a Nitra con un solo punto (43 a 42) di margine, ma il pari strappato per 1-1 è sufficiente data la contemporanea sconfitta dei rivali per 1-2 sul campo di un Tatran Presov, al quale il successo garantisce la salvezza.

Il trionfo consente pertanto a Malatinsky di ritentare l’avventura in Coppa dei Campioni nell’edizione 1972-’73, nella quale è esentato dal primo turno per sorteggio ed ottiene uno “scalpo eccellente” nel secondo, confermando la forza della propria difesa per avere ragione con un doppio 1-0 della ben più prestigiosa formazione belga dell’Anderlecht, e quindi mettere paura agli inglesi del Derby County di Brian Clough nei quarti.

Riuscita a far sua la gara di andata per 1-0 (rete di Horvath al 42’), la formazione cecoslovacca esce sconfitta 0-2 (doppietta di Hector a cavallo dell’intervallo) al ritorno al “Baseball Ground”, nel mentre in campionato si trova stavolta curiosamente a lottare per il titolo proprio con quel Tatran Presov che gli aveva garantito il successo la stagione precedente, sfida che si conclude al penultimo turno allorché l’affermazione interna per 3-0 sul Trinec consente di mantenere le tre lunghezze di margine (39 punti a 36) sufficienti a collezionare il quinto (ed ultimo) titolo cecoslovacco nella storia del club.

Per Malatinsky vi è peraltro ancora una chance europea in Coppa dei Campioni da sfruttare, per la quale, dopo il superamento del primo turno (2-1 ed 1-0) a spese dei norvegesi del Viking Stavanger, si toglie una bella soddisfazione eliminando agli ottavi i campioni sovietici dello Zorya Voroshilovgrad nel modo più beffardo, vale a dire andando a vincere 1-0 (rete di Martinkovic allo scoccare dell’ora di gioco) in trasferta dopo il pari a reti bianche dell’andata.

La speranza di tornare a disputare una semifinale europea si arresta ai quarti contro gli ungheresi dell’Ujpest Dozsa a conclusione di due match equilibrati conclusi entrambi sul punteggio di 1-1 con la conseguente decisione affidata ai calci di rigore dove, sul punteggio di 3-3 (un errore per parte), nell’ultima serie risulta determinante la trasformazione fallita da Keketi.

Si conclude qui la “bella favola” dello Spartak Trnava, formazione che per oltre un quinquennio ha dominato in patria e si è fatta anche temere in Europa, e che in seguito potrà arricchire il proprio palmares solo aggiudicandosi altre due edizioni (1975 con ancora Malatinsky alla guida e 1986) della coppa nazionale, mentre dall’avvenuta divisione fra Repubblica Ceca e Slovacchia, nonostante la minor concorrenza, riuscirà ad oggi a conquistare un solo titolo, nel 2018.

Non c’è pertanto da stupirsi che la città di Trnava abbia intitolato ad Anton Malatinsky lo stadio, con tanto di statua del tecnico all’esterno, per ricordare ad eterna memoria che c’è stato un “periodo d’oro” in cui anche un piccolo centro poteva fare la “voce grossa” sia dentro che fuori i confini nazionali.                  

IL SUCCESSO NELLA FA CUP 1904, PRIMO TRIONFO NELLA STORIA DEL MANCHESTER CITY

La formazione del Manchester City con il trofeo – da itv.com

articolo di Giovanni Manenti

E’ facile, al giorno d’oggi, “riempirsi la bocca” allorché, trattando di calcio, si parla del Manchester City, uno fra i più forti club nel panorama internazionale, e che negli ultimi 15 anni – da quando cioè la proprietà è passata nelle mani dello sceicco Khaldun al-Mubarak – si è aggiudicato 7 titoli della Premier League, tre edizioni della FA Cup e sei della League Cup, mentre a livello internazionale ha completato nel 2023 il tris di affermazioni costituito da Champions League, Super Coppa Uefa e Mondiale per Club.

Ma tutto questo “ben di Dio” rappresenta la stragrande maggioranza dei trofei che il City ha conquistato nella sua ultracentenaria storia che data dal 1894 – vale a dire da quando la vecchia Società Ardwick FC, fondata nel 1880, assume l’attuale denominazione –, costretto per moltissimi anni a recitare il ruolo di “seconda squadra di Manchester”, a fronte dell’indiscussa superiorità e popolarità dei rivali cittadini dello United.

Il tutto anche con cocenti delusioni per i supporters dei “Citizens”, che hanno dovuto vivere anche l’onta di diverse retrocessioni, toccando il fondo nell’ultima decade del XX secolo, allorché, dopo esser sceso in First Division (secondo livello del campionato inglese, ad avvenuta istituzione della Premier League) nel 1996, il City sprofonda due anni dopo in Second Division.

Fortunatamente, dal punto più basso della propria storia calcistica, il Manchester City trova lo slancio per rialzarsi e, dopo l’immediata risalita in First Division l’anno seguente, riesce a stabilizzarsi in Premier League con l’avvento del nuovo Millennio, sino a salirne ai vertici allorquando a rilevarne il pacchetto azionario è la “Abu Dhabi United Group” nel 2008 .

Descritto il punto più basso nella vita del club, il Manchester City ha peraltro vissuto anche alcuni “momenti di gloria”, segnatamente nel corso degli anni ‘30 del XX secolo, che lo vedono aggiudicarsi l’edizione 1934 della FA Cup superando 2-1 il Portsmouth in finale e quindi, tre anni dopo, conquistare il suo primo titolo di campione d’Inghilterra con tre punti (57 a 54) di vantaggio sul Charlton.

Devono però trascorrere 30 anni prima che del City si torni a parlare in termini positivi – fatta eccezione per un’altra affermazione nella finale 1956 della FA Cup, dove a soccombere per 3-1 è stavolta il Birmingham –, periodo coincidente con il dominio di entrambi i club di Manchester, ovvero la fine degli anni ’60.

Ai fasti dello United del celebre trio composto da George Best, Denis Law e Bobby Charlton – che si aggiudica il titolo nel 1965 e 1967, oltre a divenire la prima formazione inglese a sollevare la Coppa dei Campioni nel 1968 –, il City contrappone un triennio che lo vede aggiudicarsi il titolo nel 1968, la FA Cup l’anno seguente e quindi abbinare all’affermazione in League Cup nel 1970, la conquista della Coppa delle Coppe avendo la meglio per 2-1 sui polacchi del Gornik Zabrze in finale, per quello che resta l’unico trionfo europeo del club sino, appunto, al tris di affermazioni nel 2023.

E’, questa, una formazione coesa composta da giocatori che hanno fatto la storia del club, come certifica il fatto che gli stessi capeggiano la relativa “graduatoria all time” per presenze con i “Citizens”, con al vertice Alan Oakes con 676 apparizioni, seguito da Joe Corrigan con 602 e Mike Doyle con 563, mentre fanno altresì parte della “top ten” anche Colin Bell (498), Tommy Booth (487) e Mike Summerbee con 449, quest’ultimo altresì amico fraterno del “rivale” George Best.

Fatta questa lunga premessa per inquadrare le vicende di quella che i propri tifosi amano oggi chiamare la “ex seconda squadra di Manchester” (avendo riferimento alle recenti vittorie), viene però spontaneo chiedersi quando il Manchester City abbia conquistato il suo primo trofeo, e la curiosità di chi scrive l’ha portato a scoprire che proprio in quest’anno ricorre il 120esimo anniversario di tale circostanza, pertanto datata 1904.

Agli albori del XX secolo era frequente che società di più o meno recente fondazione vivessero stagioni di “alti e bassi” ed il City non sfugge a questa norma, visto che, dopo essere stato ammesso alla Second Division, ottiene la sua prima promozione nell’elite del calcio inglese nel 1899, solo per conoscere l’amarezza della retrocessione nel 1902, salvo riscattarsi immediatamente l’anno seguente, allorché domina il torneo di Second Division, classificandosi al primo posto con 54 punti, 95 reti all’attivo e sole 29 subite, con Billie Gillespie protagonista con i suoi 30 centri, ben coadiuvato dal “leggendario” Billy Meredith, che va 23 volte a segno.

Squadra che vince non si tocca”, recita un vecchio adagio che vale anche per il City che, l’anno seguente in First Division, contende sino all’ultima giornata il titolo al The Wednesday – antesignano di quello che successivamente diviene l’attuale Sheffield Wednesday –, tanto che a conclusione del programma del 16 aprile, si trova al comando della classifica con 44 punti ed una sola gara da giocare, con il ridotto margine di una sola lunghezza sui rivali che però hanno una partita in meno.

Un arrivo allo sprint nel quale però il Manchester City ha un onere in più da sobbarcarsi, ovvero la finale di FA Cup in programma il 23 aprile 1904 al “Crystal Palace” di Londra, stesso giorno in cui The Wednesday gioca in casa contro l’Aston Villa per la penultima di campionato.

Un traguardo che il City raggiunge dopo aver debuttato il 6 febbraio davanti ai propri tifosi contro il Sunderland, ostacolo superato non senza fatica con un 3-2 sul quale pone la sua firma Sandy Turnbull con una doppietta, unitamente ad un acuto di Gillespie, per poi andare ad espugnare per 2-0 il “Manor Ground” londinese agli ottavi, terreno di gioco del Woolwich Arsenal, all’epoca militante in Second Division.

Sono Frank Booth ed ancora Turnbull gli autori delle reti che schiudono al City le porte dei quarti, in un turno che, al contrario, vede l’uscita di scena dello United, umiliato sul campo del The Wednesday con un imbarazzante 6-0, con gli abbinamenti a proporre per questi ultimi la sfida con il Tottenham, mentre ai “Citizensil sorteggio offre in pasto l’incontro casalingo con il Middlesbrough.

Per entrambe le rivali in lotta per il campionato, risulta necessario il replay per accedere alle semifinali, con la differenza che The Wednesday, dopo il pari a Londra per 1-1, si impongono per 2-0 nella ripetizione davanti al pubblico amico, mentre il City, dopo lo 0-0 nel primo incontro, ottiene la qualificazione grazie al 3-1 esterno, parole e musica di Gillespie e Turnbull, reti intervallate dal sigillo di George Livingstone.

Escono viceversa di scena lo Sheffield United (così da scongiurare un eventuale derby in finale), sconfitto 0-2 a domicilio dal Bolton militante in Second Division, così come il Blackburn, che cede 2-1 in casa del Derby County, così che le due semifinali, in programma il 19 aprile 1904 in campo neutro, propongono le sfide Bolton-Derby al “Molineux Ground” di Wolverhampton e Manchester City-The Wednesday al “Goodison Park” di Liverpool, terreno di gioco dell’Everton, terza forza del campionato.

Nel corso della stagione, le due pretendenti al titolo si erano già affrontate due volte, con l’esito fissato da un pari per 1-1 a Manchester ed un’affermazione per 1-0 del The Wednesday a Sheffield, ma quel 19 marzo è tutta un’altra musica, con il trio d’attacco composto da Gillespie, Meredith e Turnbull ad andare a segno per un 3-0 che certifica la prima apparizione in finale per il City, dove ad attenderlo è il Bolton, vincitore per 1-0 sul Derby County, e che, al contrario, un tale traguardo lo aveva già raggiunto esattamente 10 anni prima, solo per essere sconfitto 1-4 dal Notts County, primo club di Second Division ad assicurarsi il trofeo.

Ovviamente, dalla parte dei “Wanderers” ci si augura che la storia si ripeta stavolta a proprio favore allorché le due squadre si schierano a centrocampo il 23 aprile 1904 di fronte ad oltre 61mila (!!!) spettatori che riempiono le tribune del “Crystal Palace” per la direzione di gara dell’arbitro A.J. Baker, che dà il fischio d’inizio alle ore 15:20.

Come sempre accade, le prime fasi sono di studio, con l’equilibrio a rompersi a metà tempo grazie al 30enne capitano del City Billy Meredith – al club da 10 anni, di cui veste i colori in 338 gare con 147 reti all’attivo, oltre ad aver indossato in 48 occasioni la maglia della Nazionale scozzese andando 11 volte a segno – e che, ricevuta palla da Livingstone, si libera in dribbling di Bob Struthers per poi infilare l’estremo difensore avversario Dai Davies con un preciso diagonale all’angolo opposto a quello di tiro.

Con le due squadre ad andare al riposo sull’1-0, la ripresa vede il Bolton costantemente proteso alla ricerca del pari, ben contenuto dalla difesa del City nella quale si esalta il terzino Herbert Burgess, autore di una eccellente prestazione, così che la migliore occasione per riequilibrare l’esito dell’incontro capita sui piedi di Walter White a pochi minuti dal termine, ma la sua conclusione esce a lato di poco, così che al triplice fischio finale il Manchester può festeggiare il suo primo trionfo e Meredith sollevare il trofeo.

Contemporaneamente, a Sheffield il The Wednesday supera 4-2 l’Aston Villa riconquistando il vertice della classifica con un punto di margine, ma la matematica certezza della conquista del titolo avviene senza giocare, in quanto il City, chiamato a disputare la sua ultima gara a due soli giorni di distanza dalla finale di Coppa, cede 0-1 contro l’Everton, curiosamente sullo stesso terreno che lo aveva visto “distruggere” The Wednesday nella semifinale di FA Cup.

E, forse, è giusto così, con le due principali protagoniste della stagione a dividersi i due trofei, anche se al Manchester City per riuscire a conquistare il “double” (ovvero titolo ed FA Cup) occorreranno ben 115 anni, allorché la formazione guidata da Pep Guardiola “esagera”, vale a dire centrando un’impresa sinora unica nel panorama del calcio inglese, ovvero centrare nel 2019 il “Treble, costituito da Premier League, FA Cup e League Cup.

Altri tempi, indubbiamente…          

AI MONDIALI DEL 1962 IL BRASILE INFRANGE IN SEMIFINALE IL SOGNO DEI PADRONI DI CASA DEL CILE

articolo di Nicola Pucci

Raccontare dei Mondiali del Cile del 1962 e di quello che fu il percorso della squadra padrona di casa, produce qualche disagio a noi italiani. Già, perché in quell’edizione a cui gli azzurri, assenti quattro anni prima in Svezia, presero parte necessitando, per qualificarsi, di un unico, doppio impegno con Israele (4-2 in trasferta e 6-0 in casa), proprio la sfida di primo turno con i sudamericani rimase, usando un eufemismo, davvero indigesta ai calciatori tricolori.

Dopo lo scialbo 0-0 all’esordio con la Germania Ovest, infatti, la squadra del duo in panchina Paolo Mazza/Giovanni Ferrari incrocia al secondo match il Cile, e quel che ne viene fuori è la famosa “battaglia di Santiago“, una sorta di caccia all’uomo in cui l’Italia prova a giocare e i padroni di casa, al contrario, picchiano, al punto che a fare le spese della malafede dell’ineffabile Ken Aston, direttore di gara inglese che già aveva arbitrato il Cile all’esordio con la Svizzera, sono Ferrini e David, costretti anzitempo a tornare negli spogliatoi. Finisce 2-0 per la squadra di Fernando Riera, con reti di Ramirez e Toro nella parte finale dell’incontro, e se il Cile avanza così ai quarti di finale, l’Italia, che all’ingresso in campo era stata accolta da una selva di fischi, complici anche alcuni articoli apparsi sulla stampa del Belpaese, affatto lusinghieri con il paese, provocando indignazione tra gli stessi mezzi di comunicazione cileni, torna mestamente a casa.

Ai quarti di finale il Cile, che nelle sue due precedenti partecipazioni ai Mondiali, in Uruguay nel 1930 e in Brasile nel 1950, non era andato oltre la prima fase a gironi, batte con il minimo scarto l’Urss, 2-1 con reti risolutive di Sanchez e Rojas, e per la prima volta, ma anche l’unica della sua storia, giocherà per un piazzamento sul podio iridato.

Con il torneo che si avvia alla sua fase conclusiva, i padroni di casa tornano infatti in campo il 13 giugno all'”Estadio Nacional” della capitale Santiago per affrontare i campioni in carica del Brasile in una sfida tutta sudamericana che – se si esclude l’edizione 1950 in cui le semifinali furono sostituite da un girone finale a quattro – rappresenta una novità a questo livello della manifestazione.

Tutti i 76.594 posti dello stadio sono occupati per assistere ad una sfida che si preannuncia quanto mai delicata, per dirigere la quale è chiamato l’arbitro messicano Arturo Yamasaki Maldonado – colui che, otto anni più tardi, dirigerà la celebre semifinale Italia-Germania Ovest ai Mondiali di Messico del 1970 -, coadiuvato da due guardalinee anch’essi sudamericani, l’argentino Ventre e l’uruguaiano Marino.

Nonostante l’assordante supporto proveniente dagli spalti, la gara non tarda molto ad incanalarsi in favore dei carioca, dopo che una iniziale conclusione da fuori di Toro ha scheggiato il palo alla destra del portiere Gilmar. Tocca, infatti, ancora a Garrincha farsi carico del peso dell’attacco brasiliano ancora orfano di Pelè, sbloccando il risultato al 9′ grazie ad una potente conclusione di sinistro da poco oltre il limite dell’area che va ad insaccarsi nell’angolino alto alla sinistra dell’incolpevole Escuti, per quella che sarà l’unica rete su azione dell’incontro.

Poco oltre la mezz’ora di gioco, Garrincha concede il bis replicando il punto messo a segno nei quarti contro l’Inghilterra, vale a dire anticipando di testa sul primo palo il proprio diretto avversario su calcio d’angolo battuto da sinistra da Zagallo, ma a ridare speranza ai tifosi di casa ci pensa Toro al 42′, con una magistrale punizione da fuori area che manda la sfera nell’angolo alto alla destra di Gilmar e porta il punteggio sul 2-1 con il quale le due squadre vanno al riposo.

Ma i verdeoro hanno “l’uomo in più“, vale a dire Garrincha, le cui scorribande sulla fascia destra portano scompiglio, costringendo i difensori cileni al fallo o, nella migliore delle ipotesi, a concedere il calcio d’angolo, ed è da una di queste situazioni di gioco che scaturisce, al 2′ della ripresa, il tris brasiliano, con una corner calciato dall’immarcabile ala destra su cui la difesa dei padroni di casa non brilla per posizionamento, consentendo a Vavà di schiacciare di testa un pallone del quale anche l’estremo difensore Escuti calcola male il rimbalzo, permettendo che si insacchi alle sue spalle per il punto del 3-1.

Partita che sembra chiusa, ma a rianimarla ci pensa Zozimo. commettendo un fallo di mano che il direttore di gara giudica meritevole della massima punizione, trasformata da Leonel Sanchez al 62′ e, con quasi mezz’ora di gioco ancora da disputare, i giochi sono ben lungi da dirsi conclusi.

A mettere la parola fine alla qualificazione alla finale del 17 giugno, infrangendo così il sogno cileno, ci pensa ancora Vavà, il quale si incunea nella disattenta difesa cilena per raccogliere di testa uno spiovente su punizione di Zagallo per mettere a segno al 78′ la rete del definitivo 4-2, ma se ciò conclude la gara sotto l’aspetto del risultato, dà inizio alle prevedibili ostilità da parte dei demoralizzati padroni di casa, i quali sfogano la propria rabbia in inutili falli che portano l’arbitro Yamasaki ad espellere Landa all’80’ per un brutto intervento su Zito, per poi comminare analogo provvedimento 3′ dopo ai danni di Garrincha, resosi colpevole di una reazione nei confronti di Rojas all’ennesimo fallo subito, ottenendo anche il “regalo” da parte del pubblico di una bottiglietta che lo colpisce al capo mentre sta prendendo la strada degli spogliatoi.

BRASILE 4 (Garrincha 9′ e 32′, Vavà 47′ e 78′) – CILE 2 (Toro 42′, Leonel Sanchez rig. 62′)

BRASILE: Gilmar, Djalma Santos, Nilton Santos; Zito, Mauro (cap.), Zozimo; Garrincha, Didi, Vavà, Amarildo, Zagalo. All.Aymoré Moreira

CILE: Escuti; Eyzaguirre, Rojas; Rodríguez, Raul Sanchez, Contreras; Ramirez, Toro (cap.), Landa, Tobar, Leonel Sanchez. All. Fernando Riera

Arbitro: Arturo Yamasaki Maldonado (Messico)

NOTE: espulsi Landa (Cile) all’80’ e Garrincha (Brasile) all’83’.

MARIUS TRESOR, LA “COLONNA D’EBANO” AL CENTRO DELLA DIFESA TRANSALPINA

Tresor e Zoff prima dell’amichevole Italia-Francia dell’8.2.1978 – da wikipedia.org

articolo di Giovanni Manenti

Al giorno d’oggi, siamo abituati a vedere la Nazionale di calcio francese schierare giocatori di colore, tant’è che superano per numero i bianchi, come certificano gli schieramenti iniziali delle due ultime finali dei Mondiali di Russia 2018 e Qatar 2022, pur con una risicata (sei a cinque) maggioranza.

Il tutto frutto della politica di espansione coloniale della Francia durata ben quattro secoli (dal 1534 al 1946) e principalmente orientata verso il continente africano, il che ha portato, anche dopo aver ottenuto l’indipendenza, molti abitanti di questi paesi ad emigrare verso la nazione transalpina a far tempo dagli anni ’60 del XX secolo in poi.

E, a cercar fortuna nel Vecchio Continente, non potevano certo mancare coloro che speravano di emergere giocando a calcio, con la prospettiva di sottoscrivere contratti professionistici in grado di dare una “svolta a 360 gradi” alla loro esistenza, molto spesso convinti da osservatori e talent scout dei migliori club della Division1 alla ricerca di nuovi talenti.

Una regola a cui non sfugge neppure il protagonista della nostra storia odierna, vale a dire Marius Tresor, il quale nasce il 15 gennaio 1950 a Sainte-Anne, città di poco più di 20mila anime posta nel possedimento francese in Guadalupa, arcipelago caraibico attualmente considerato Dipartimento d’Oltremare della Repubblica Francese.

Tresor inizia a tirare i primi calci ad un pallone in una formazione locale chiamata Juventus, dove viene notato da uno dei tanti osservatori sparsi per il pianeta che lo segnala ai dirigenti dell’Ajaccio, club della capitale corsa che solo a conclusione della stagione 1966-’67 aveva guadagnato per la prima volta nella sua storia la promozione in Division1.

Alla società allenata dal tecnico argentino Alberto Muro non pare vero di poter inserire nel proprio organico – che, dopo un positivo esordio nell’elite del calcio nazionale concluso al nono posto, aveva evitato la retrocessione per un solo punto la stagione seguente – un tale rinforzo per il reparto difensivo, specie dopo aver appurato che il 19enne della Guadalupa è in grado di abbinare alle qualità fisiche (1,82 metri per 80 chili) anche quelle tecniche.

L’approccio, come si conviene in questi casi, è graduale, con Tresor a debuttare in prima squadra il 23 novembre 1969 nella sconfitta esterna per 1-2 contro il Valenciennes, per poi collezionare 15 presenze nella sua stagione d’esordio che non sarebbero sufficienti a garantire la salvezza dell’Ajaccio a fine torneo, se non fosse che, grazie alla rinuncia dei Rouen per motivi finanziari ed alla ristrutturazione dei campionati con allargamento a 20 squadre della Division1, la retrocessione viene scongiurata.

Ciò consente a Tresor di mettersi in evidenza nel successivo biennio in cui viene schierato in 34 e 38 gare rispettivamente – mettendo anche a segno a fine agosto 1971 la sua prima rete in campionato, peraltro non sufficiente ad evitare la sconfitta interna, ironia della sorte, ancora contro il Valenciennes e sempre per 1-2 –, tanto da esordire non ancora 22enne in Nazionale ad inizio dicembre 1971 nella sconfitta esterna per 1-2 a Sofia contro la Bulgaria, venendo peraltro schierato dal commissario tecnico Georges Boulogne nell’inedito ruolo di terzino sinistro.

Lui, viceversa, è un libero cui piace dirigere i compagni di reparto, e lo fa pure bene, visto che la prestigiosa rivista transalpina “France Football” lo elegge come “jouer français de l’année” a fine 1972, allorché lo statuario difensore ha già cambiato maglia, rimanendogli oramai troppo stretto l’ambito dell’Ajaccio, essendosi accasato ad inizio ottobre al ben più ambizioso Olympique Marsiglia.

Con la Nazionale, viceversa, Tresor viene affiancato da un altro centrale difensivo di colore, tale Jean-Pierre Adams, assieme al quale fa coppia durante la partecipazione alla “Taça Independencia” che si disputa dall’11 giugno al 9 luglio 1972 in Brasile e che i padroni di casa si aggiudicano, ma non sono anni di gloria per “Les Bleus”.

La Francia, difatti, fallisce la qualificazione alle fasi finali dei Mondiali di Germania ’74 così come non supera il girone eliminatorio degli Europei 1976 (addirittura terza in un gruppo composto da Belgio, Germania Est ed Islanda), percorsi che vedono Tresor schierato titolare in ogni incontro.

Onestamente, le cose non vanno granché meglio neppure sulla Costa Azzurra dove Tresor, approdato in un club reduce dall’aver conquistato due titoli (1971-’72) consecutivi della Division1, non va oltre a piazzamenti limitati ad un terzo posto nel 1973 ed un secondo nel 1975, con l’unico trionfo costituito dall’affermazione nell’edizione 1976 della Coupe de France, da lui sollevata in qualità di capitano dopo il successo per 2-0 sull’Olympique Lione in finale.

Qualcosa sta però cambiando per quanto concerne “l’equipe de France”, grazie alla crescita di club come il Nantes ed il Saint-Etienne – dai quali attinge il nuovo commissario tecnico Michel Hidalgo – ed all’emergere di un talento assoluto quale Michel Platini, il che consente a Tresor, che ha altresì assunto i gradi di capitano dalla sfida di inizio ottobre 1976 a Sofia contro la Bulgaria (curiosamente stesso stadio dove aveva esordito), di ottenere la qualificazione per i Mondiali di Argentina 1978.

Rassegna in cui una Francia ancora acerba ai massimi livelli internazionali esce al primo turno anche per essere stata inserita nel “gruppo di ferro” assieme ad Argentina, Italia ed Ungheria, rimediando peraltro due sconfitte di misura (1-2) contro i padroni di casa e gli Azzurri ed avendo viceversa la meglio per 3-1 sui magiari.  

Il difensore caraibico di origine ha classe da vendere, la sua eleganza nelle movenze ed il carisma verso compagni ed avversari lo portano ad essere paragonato a due “mostri sacri” quali Ruud Krol e Franz Beckenbauer, ma da solo non può impedire la retrocessione dell’Olympique Marsiglia a fine torneo 1980, così come la mancata qualificazione della Francia alle fasi finali degli Europei 1980, pur se nel girone eliminatorio scende in campo solo in due delle sei gare disputate dai transalpini.

Raggiunta la soglia dei 30 anni, si potrebbe presumere che per Tresor inizi la fase conclusiva della carriera, ma in suo aiuto giunge il Bordeaux del tecnico Aimé Jacquet – colui che condurrà la Francia al suo primo titolo mondiale nel 1998 – che lo acquista nell’estate 1980, al pari di Hidalgo che non intende rinunciare alle sue prestazioni, schierandolo titolare nelle delicate sfide contro Belgio ed Olanda che schiudono a “Les Bleus” le porte dei Mondiali di Spagna 1982.

Unica concessione, la fascia di capitano che ora fa bella mostra di sé al braccio de “Le Roy” Michel Platini, mentre l’avventura in terra iberica non inizia nei migliori nei modi, con la Francia sconfitta 1-3 all’esordio dai “rivali storici” dell’Inghilterra e la qualificazione acciuffata per i capelli con l’1-1 contro la Cecoslovacchia dopo il comodo successo per 4-1 sul Kuwait.

Ma, fedele al motto che il calcio “quello che prende a volte restituisce”, ecco che i transalpini beneficiano del mancato primo posto di Argentina, Italia, Germania Ovest e Spagna nei rispettivi gironi, così che nella seconda fase che prevede altri quattro gruppi da tre squadre ciascuno, l’abbinamento con Austria ed Irlanda del Nord consente alla formazione di Hidalgo di migliorare l’intesa e, qualificata per le semifinali con due affermazioni per 1-0 e 4-1 rispettivamente, trova ad attenderla la Germania Occidentale, appuntamento fissato per l’8 luglio 1982 all’“Estadio Ramon Sanchez Pizjuan” di Siviglia.

Giunta per la seconda volta nella propria storia a questo stadio della manifestazione – unico precedente, l’edizione dei Mondiali del 1958 in Svezia –, francesi e tedeschi danno vita ad una sfida che non ha nulla da invidiare alla “leggendaria” semifinale Italia-Germania di Messico 1970, con anche in questo caso a prolungarsi ai supplementari dopo l’identico punteggio di 1-1 al 90’.

E qui succede di tutto, con proprio Tresor ad ergersi protagonista allorché, da autentico leader e trascinatore dei suoi compagni, si trasforma in goleador arpionando al 3’ dei prolungamenti una punizione calciata da destra da Giresse per l’ultimo dei suoi quattro centri con la maglia della Nazionale che sembra profumare di finale, tanto più che dopo appena 6’ Giresse arrotonda il punteggio sul 3-1 con una chirurgica conclusione dal limite.

Ferita, ma non ancora uccisa, la “tigre tedesca” reagisce e riesce a riequilibrare le sorti dell’incontro con conseguente decisione su quale delle due formazioni affronterà l’Italia l’11 luglio in finale affidata ai calci di rigore, che si rivelano amari, con il compagno di reparto Bossis a commettere l’errore determinante.

Una Francia che fallisce anche l’assegnazione del terzo posto, sconfitta 2-3 dalla Polonia, con Tresor a vedersi riconsegnata la fascia di capitano, così come in occasione della sua 65esima ed ultima presenza nella gara d’addio svoltasi il 12 novembre 1983 a Zagabria contro la Jugoslavia, per quello che, all’epoca, rappresentava il primato con “Les Bleus”, destinato a resistere sino all’11 settembre 1985, allorquando a superarlo sarà proprio Bossis.

Stavolta siamo davvero ai titoli di coda, con Tresor, condizionato da ripetuti problemi alla schiena, a porre fine alla propria attività agonistica venendo per l’ultima volta schierato in campionato il 18 novembre 1983 nel successo esterno per 3-1 del Bordeaux a Bastia, stagione che, ironia della sorte, si conclude con la conquista del suo unico titolo di Division1 pur con un limitato contributo di 12 presenze ed una rete.

Tresor non può vantare il privilegio di essere stato il primo giocatore di colore ad aver indossato la maglia della Nazionale – tale primato spetta a tale Raoul Diagne, originario della Guayana, che ne vestì i colori in 18 occasioni fra il 1931 ed il 1940 – ma sicuramente il primo ad essere ricordato in veste di protagonista di livello assoluto.

Aver dovuto porre fine ad una carriera da 516 presenze complessive a livello di club impreziosite da 18 reti all’attivo non consente altresì a Tresor di essere selezionato per la rassegna continentale che la Francia organizza nel 1984 e che si aggiudica superando 2-0 la Spagna in finale, con a rilevarne il posto il 24enne Yvon Le Roux, all’epoca in forza al Monaco.

Sostituito nello schieramento in campo, ma certamente non nel cuore dei tifosi transalpini