SCOTTIE PIPPEN, IL SECONDO VIOLINO PIU’ FORTE DI SEMPRE

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Scottie Pippen – da bankrate.com

articolo di Giovanni Manenti

Sul fatto che Michael Jordan e Scottie Pippen abbiano formato, nei loro 10 anni di militanza nei Chicago Bulls, una delle più devastanti coppie nella Storia del Basket professionistico Usa, non vi è dubbio alcuno, ma in questi casi i “media” – tanto per riempire un po’ le pagine dei giornali o dare spunti ai “talk show” televisivi – si pongono spesso la più classica (ed inutile, a dire il vero …) delle domande, ovverossia, cosa sarebbe stato Scottie senza Michael e viceversa.

A sostegno di coloro che ritengono come fosse la presenza di MJ determinante per il successo del suo più giovane compagno, vale il fatto che, nell’anno del provvisorio ritiro di Jordan dal parquet – e che, non a caso, coincide con le miglior medie realizzative di Pippen, 22,0 punti a partita in “regular season” e 22,8 nella serie playoff – i tre volte campioni NBA di Chicago concludono la stagione con il terzo miglior record nella “Eastern Division” (e quinto assoluto) per poi essere eliminati nella semifinale di Conference dai New York Knicks di Pat Ewing e John Starks.

Il partito di chi, viceversa, sostiene come la presenza di Pippen sia stata fondamentale per i successi di Jordan, mette sul piatto il fatto che, nonostante le eccezionali prestazioni del newyorkese nelle sue prime tre stagioni a Chicago – segnatamente i 43,7 punti (!!) di media nei playoff ’86 ed i 37,1 nella stagione regolare successiva – i Bulls non siano mai andati oltre il primo turno della “post season” in tale periodo.

C’è poi una terza persona a cui di queste problematiche è sempre interessato poco o niente, in quanto a lui, giunto a Chicago assieme a Pippen nell’estate ’87 quale “assistant coach” di Doug Collins – e di cui rileva il ruolo di primo allenatore due anni dopo – spetta solo il compito di armonizzare la coppia che il destino ha fatto sì che avesse per le mani al fine di farla rendere al massimo, e, per quanto ovvio, stiamo parlando di Phil Jackson, il “coach degli 11 anelli” in carriera, record assoluto nel panorama del basket professionistico americano.

Scottie Pippen nasce ad Hamburg, nell’Arkansas, il 25 settembre 1965 quale ultimo di 12 figli, dei quali è l’unico che può permettersi di studiare, frequentando il liceo della sua città natale per poi accedere alla “University of Central Arkansas” a Conway, periodo in cui completa la propria crescita fisica dai m.1,85 sino ai m.2,03 con tanto di cambio di ruolo da guardia ad ala piccola.

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Pippen ai tempi del College, ad Arkansas – da nba.com

Sfortunatamente per Pippen, il piccolo College a cui è iscritto non fa parte del circuito NCAA, non avendo così occasione di confrontarsi con i migliori talenti del basket universitario Usa, ciò nondimeno le sue prestazioni – segnatamente nella sua ultima stagione, con 23,6 punti e 10 rimbalzi di media a partita, con una percentuale di quasi il 60% al tiro – non passano inosservate ai vari scout sparsi per gli States e gli echi devono essere giunti alla dirigenza dei Bulls, che convince Seattle – che lo aveva scelto al Draft ’87 come sua prima opzione, quinta assoluta – a scambiarlo con Olden Polynice ed una futura opzione.

In quella sessione estiva, Chicago si aggiudica così, oltre a Pippen, anche l’ala grande/centro Horace Grant, in modo da completare un quintetto che già aveva nel playmaker John Paxson e nel centro Charles Oakley i suoi punti di forza, oltre a “Sua Maestà” Jordan, ovviamente.

I risultati non tardano a venire, con i Bulls a superare per la prima volta nell’era Jordan lo scoglio del primo turno dei playoff, ma sulla costa orientale vi sono ancora due franchigie dure a morire, vale a dire i Boston Celtics del “cecchino” Larry Bird ed i “Bad Boys” di Detroit, con questi ultimi a laurearsi Campioni nel 1989 e ’90, in entrambi i casi dopo entusiasmanti sfide con Chicago per la supremazia nella Eastern Conference.

Ed è proprio la Finale di Conference del ’90, conclusa 4-3 per Detroit grazie al fattore campo che non ha visto alcuna delle due squadre espugnare il parquet avversario, a convincere Phil Jackson che i tempi sono maturi per provare l’assalto al titolo, vista la crescita di Pippen, non ancora 25enne, e di Grant, così da poter concedere una maggior libertà di azione a Jordan, e le statistiche, che nel basket sono “Vangelo”, sono lì a testimoniarlo.

Inserito nel quintetto iniziale di tutte le 82 gare di “regular season”, Pippen disputa nel ’90 una media di 38,4 minuti a partita, innalzando a 16,5 punti, 6,7 rimbalzi, 5,4 assist, 2,6 palle rubate ed 1,2 stoppate le proprie percentuali e che si elevano nei playoff a 19,3 punti. 7,2 rimbalzi e 5,5 assist di media a partita, così da diventare il “partner ideale” per Jordan.

Il punto chiave di Pippen nello scacchiere tattico di Jackson sta nella sua duttilità a ricoprire una molteplicità di ruoli e tutti ad alto livello, nonché in una straordinaria abilità nel rubar palla, il che gli consente d innescare il mortifero contropiede di Jordan, che in campo aperto è immarcabile, quando non sia egli stesso a lanciarsi nella metà campo avversaria per andare a concludere l’azione.

Con altresì una percentuale al tiro chirurgica, sempre intorno al 50%, Pippen verrà definito, a fine carriera, come un giocatore in grado di dirigere un’azione offensiva come un playmaker, di andare a rimbalzo come un’ala forte, di segnare alla stregua di una guardia e di difendere sul perimetro come pochi altri, in poche parole la “descrizione ideale” del perfetto cestista.

Questo per spiegare, in estrema sintesi, quanto sia stata determinante la sua presenza a fianco di Jordan nei due successivi “Three peat” – gioco di parole americano per indicare tre titoli consecutivi accostando il termine “three” (tre) a “repeat” (replica) – degli anni ’90, ad iniziare proprio dal titolo ’91, come sempre il più difficile.

Per la prima volta nella loro storia, i Bulls superano le 60 vittorie nella stagione regolare, il che garantisce loro il vantaggio del fattore campo nei confronti dei Celtics, secondi, e dei Pistons, terzi, grazie al perfetto connubio tra Jordan e Pippen che, in coppia, rubano più di 5 palloni di media a partita, andamento confermato anche nei playoff, dove New York e Philadelphia vengono spazzati via (3-0 e 4-1, rispettivamente), prima della resa dei conti contro Isiah Thomas ed i suoi Detroit Pistons per la Finale di Conference.

Con MJ a bombardare la retina dei Pistons e Pippen a rivaleggiare con Grant sotto canestro con una paritetica media di 7.8 rimbalzi a partita nella serie, i bicampioni sono costretti ad abdicare sotto un umiliante 0-4 che suona come la più dolce delle rivincite per Chicago, e quanto sia stata alta la “sete di vendetta” è confermato dai furti dell’implacabile duo, attestatisi a 5,3 di media.

Il più era fatto, anche perché, sulla costa ovest, Magic Johnson aveva speso i suoi ultimi spiccioli di gloria assoluta eliminando nella Finale di Conference i Portland Trail Blazers, che avevano il miglior record assoluto della stagione, così consegnando a Chicago il vantaggio del fattore campo per quella che è la prima Finale per il titolo assoluto nella storia della franchigia.

L’esperienza, in questi frangenti, qualcosa deve pur contare, ed i vecchi marpioni di Los Angeles la mettono a frutto sorprendendo Chicago in gara-1 andando a vincere 93-91 sul parquet dell’Illinois, ma proprio questa sconfitta ha il risultato di togliere la pressione dalle menti dei giocatori di Jackson, i quali non concedono più nulla agli avversari nei successivi quattro incontri, pareggiando la serie sul 107-86 di gara-2 per poi andare ad espugnare per tre volte consecutive in cinque giorni, dal 7 al 12 giugno ’91, il Forum di Inglewood, con la fondamentale gara-3 risolta 104-96 al supplementare, dopo che i Bulls avevano iniziato l’ultimo quarto sotto di 6 (66-72), grazie ai 29 punti di Jordan ed ai 13 rimbalzi di Pippen.

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Pippen in azione in gara-4 delle Finali NBA ’91 – da si.com

Un solo dato riteniamo più che sufficiente a chiarire quanto l’affiatamento raggiunto tra i due compagni di squadra sia risultato determinante in questo tris di vittorie in terra californiana, vale a dire il fatto che siano sempre stati solo loro a far registrare le migliori statistiche di squadra – gara-3, Jordan 29 punti e 9 assist, Pippen 13 rimbalzi; gara-4, Jordan 28 punti e 13 assist, Pippen 9 rimbalzi e gara-5, Pippen 32 punti e 13 rimbalzi, Jordan 10 assist – coppia di fronte alla quale anche lo “Show time” di Magic è costretto ad arrendersi.

La “macchina perfetta” di Phil Jackson non conosce ostacoli nella successiva stagione, chiusa con un record di 67-15 da garantire il vantaggio del fattore campo in ogni turno dei playoff dove, un po’ inaspettatamente, li attende, dopo un facile 3-0 sulla matricola Miami, un ostacolo costituito dai New York Knicks che si rivela molto più ostico di quanto fatto vedere nei quattro incontri di “regular season”, tutti appannaggio di Jordan & Co..

Per Jordan, tornare nella sua nativa New York è sempre da un lato stimolante, ma dall’altro condizionante per la sua voglia di strafare – celebri, al riguardo, i suoi “siparietti” a bordo campo con il famoso regista newyorkese Spike Lee, accanito fan dei Knicks – per cui occorre che Pippen dia lui una mano, soprattutto nel cercare di arginare la superiorità del colosso (m.2,13 per 108kg.) Pat Ewing sotto canestro, compito che il 27enne dell’Arkansas assolve al meglio con i suoi 8,3 rimbalzi di media nella serie, elevati a 10 in gara-5 ed ad 11 in gara-7, entrambe decisive per il superamento del turno.

Scampato il pericolo, Chicago rimedia ad un “passaggio a vuoto” in gara-2 (sconfitta interna per 81-107) delle Finali della Eastern Conference contro i Cleveland Cavaliers, chiudendo la serie sul 4-2 – Jordan 31,7 punti e 6,3 assist di media, Pippen 19,8 punti ed 11,2 rimbalzi a partita – per andare ad affrontare Portland nella sfida per il titolo mancata l’anno prima, ma potendo contare sul vantaggio del fattore campo.

La sfida conclusiva si risolve nell’atteso duello tra le due guardie – Jordan da una parte e Clyde Drexler dall’altra – con MJ ad avere la meglio con i suoi 35,8 punti di media nella serie, caratterizzata dall’exploit in Oregon per 119-106 in gara-5 dove mette a segno 46 punti, ben coadiuvato da Pippen con 11 rimbalzi e 9 assist.

Bulls che rischiano, con le ultime due gare da disputare sul parquet amico con la serie sul 3-2 in loro favore, di buttare tutto alle ortiche con una sciagurata prestazione in gara-6 che li vede sotto di 15 lunghezze (64-79) all’inizio dell’ultimo quarto, con il geniale Jackson a cavar fuori dal cilindro la mossa psicologica di far partire nel parziale conclusivo un quintetto con quattro riserve ed un unico titolare, e chi, se non Scottie Pippen, capace di catalizzare su di lui ogni azione di gioco.

Detto fatto, nell’arco di tre minuti lo scarto è ridotto a soli 3 punti e Jackson può rimettere nella mischia un Jordan riposato e, soprattutto, stimolato dal confronto con il compagno per il parziale di 33-14 con cui si conclude il quarto per il 97-93 che consegna a Chicago il suo secondo titolo.

Figuriamoci se Chuck Daly, coach dei Detroit Pistons, chiamato al compito di mettere in campo la più forte selezione di ogni epoca che il basket abbia presentato in una rassegna olimpica, non a caso ribattezzata “Dream Team”, si lascia sfuggire l’occasione di poter essere dalla parte giusta della barricata, e cioè nel poter guidare la devastante coppia di Chicago invece che cercare di arginarla, ed ecco che ai Giochi di Barcellona ’92, Michael e Scottie sono tra i protagonisti nella sin troppo facile conquista della medaglia d’oro, fornendo la loro miglior prestazione nella Finale contro la Croazia di Drazen Petrovic, mettendo a segno 35 punti in due nel 117-85 che consacra gli Usa come stella assoluta della competizione.

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Pippen e Jordan (con Drexler), oro ai Giochi ’92 – da nydailynews.com

Al ritorno nelle faccende di casa loro, i Bulls concludono la stagione ’93 con il secondo miglior record (57-25) di Conference, ed i terzo assoluto, il che li pone nella condizione, dopo aver passeggiato nei primi due turni di playoff contro Atlanta (3-0) e Cleveland (4-0), di dover concedere il vantaggio del fattore campo sia ai Knicks nella Finale della Eastern Conference che ai Phoenix Suns nell’eventuale sfida per il titolo.

I Knicks voglio riscattare la sconfitta dell’anno precedente e si portano sul 2-0 sfruttando al meglio le prime due gare al “Madison Square Garden”, con i Bulls ad impattare la serie con il 103-83 di gara-3 con Pippen top scorer con 29 punti ed il “personal show” di Jordan (54 punti …!!) nel 105-95 di gara-4, per poi toccare a B.J. Armstrong prendersi l’onore del canestro da tre punti che decide 97-94 gara-5 e quindi rendere vani i 26 punti e 13 rimbalzi di Ewing nella sconfitta dei Knicks per 88-96 a Chicago che manda per la terza volta consecutiva i Bulls in Finale, al termine di una serie che vede Pippen mettere a referto 22,5 punti e 6,7 rimbalzi di media.

Costretti a confrontarsi con un’altra “forza della Natura” quale un Charles Barkley all’apice della propria carriera, i Bulls compiono l’impresa di aggiudicarsi i primi due incontri in Arizona – con gara-2, chiusa sul 111-108, che vede Jordan e Barkley dividersi la palma del “top scorer” con 42 punti a testa – prima che andasse in scena “l’incontro che nessuno vuol perdere”, sotto forma dell’infinita gara-3 in cui ad ogni fine quarto nessuna delle due squadre ha un margine superiore ad un punto e che risolve dopo tre tempi supplementari con i Suns ad espugnare Chicago per 129-121 nonostante i 44 punti di Jordan.

MJ che deve far ricorso agli straordinari, mettendone a segno 55 nel successo per 111-105 di gara-4, necessari per arginare la devastante furia di un Barkley autore di una impressionante “tripla doppia” (32 punti, 12 rimbalzi e 10 assist), ma i suoi 41 punti in gara-5 risultano insufficienti ad impedire che i Suns riequilibrassero le sorti della serie quanto a fattore campo, espugnando per la seconda volta il parquet avversario e portandosi così sul 2-3 con la prospettiva delle due ultime sfide alla “America West Arena”, in Arizona.

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Pippen e Barkley hanno qualcosa da dirsi nelle Finali ’93 – da gettyimages.it

Il rischio di dover arrivare a gara-7 va scongiurato ed i Bulls sembrano avviati a concludere la serie allorché si portano sull’87-79 a fine terzo quarto, grazie anche al determinante apporto di Pippen con i 23 punti ed i 12 rimbalzi messi a referto, ma gli ultimi 12’ stanno per rovinare tutto, con un parziale di 19-7 per il vantaggio Suns di 98-94 prima che un canestro di Jordan ed una tripla allo scadere di Paxson sigli il sorpasso per il 99-98 che consegna a Chicago il terzo titolo consecutivo, un evento che nella NBA non si verificava dai tempi dei Boston Celtics di Bill Russell e Red Auerbach.

Ed eccoci giunti al momento clou della nostra storia, costituito dal primo abbandono delle scene cestistiche da parte di Jordan, con il mondo del basket e chiedersi che cosa ne sarà dei Bulls, privi del loro indiscusso leader, il cui ruolo tocca ora al “secondo violino” dell’orchestra di Phil Jackson, Scottie ovviamente.

Occorre precisare che, nel panorama del basket Usa – ed in particolar modo presso i relativi fans – la popolarità di Pippen è seconda solo a quella del suo illustre compagno, tanto che nelle votazioni per l’All Star Game ’93 raccoglie il maggior numero di preferenze, Jordan a parte, grazie ad una continuità di rendimento senza uguali, che lo vede partire in quintetto base per 307 gare consecutive, prima di saltare un incontro per squalifica, rifacendosi al rientro mettendo dentro 39 punti contro i San Antonio Spurs.

A compensare l’assenza di Jordan, i Bulls ingaggiano un giovane europeo, il croato Toni Kukoc, e, guidati dal nuovo leader Pippen – il quale, con l’opportunità di muoversi libero dall’ombra di Michael, fa segnare i propri record personali per singola stagione con 22 punti ed 8,7 rimbalzi di media a partita – ottengono un record di 55-27 inaspettato per gli addetti ai lavori, pur se ai playoff l’assenza di Jordan risulta determinante contro New York, con Chicago sconfitta 3-4 in una emozionante e combattuta sfida.

Il rientro del “figliol prodigo” nella parte finale della “regular season” ’95 non è sufficiente a far andare i Bulls oltre il secondo turno dei playoff, ma pone le basi per la più sensazionale stagione nella storia della franchigia, con Michael e Scottie a voler dimostrare all’universo del basket quanto la chimica esistente tra di loro non si sia minimamente scalfita.

Come poter, diversamente, considerare una stagione in cui Chicago piazza un impressionante record di 72 vittorie contro appena 10 sconfitte in “regular season”, con un quintetto dove Jordan e Pippen sono gli unici reduci del precedente tris, con Steve Kerr a sostituire Paxson in regia, il già ricordato Kukoc come ala piccola ed il “verme” Denis Rodman a dare una mano a Pippen nel catturare rimbalzi, nel mentre il centro Luc Longley sembra quasi un di più, messo in campo proprio perché non se ne può fare a meno.

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Il trio Rodman, Jordan e Pippen degli anni 1996-’98 – da aminoapps.com

Tutti sanno quanto smisurato sia l’orgoglio di Jordan, e voler dimostrare a tutti che i quasi due anni di inattività non hanno scalfito la propria fama di miglior giocatore di ogni epoca, fa sì che i play off si risolvano in poco più di una passeggiata, con Miami (3-0), New York (4-1) ed Orlando (4-0) a far poco più che da comparse, prima che una leggera, maggiore resistenza la oppongano i Seattle Super Sonics nella sfida per il titolo, peraltro già decisa dopo che i Bulls portano la serie sul 3-0 prima del 4-2 definitivo, che vede Jordan primeggiare quanto a punti (27,3), Rodman a rimbalzo con 14,7 (!!) e Pippen primo per assist, 5,3 cui unisce anche 15,7 punti ed 8,3 rimbalzi di media, a dimostrazione che, a dispetto dei 30 anni compiuti, la sua caratteristica di giocatore completo non tende ad affievolirsi.

Ed anzi, Scottie non si tira indietro quando c’è da rispondere presente per confermare il titolo olimpico ai Giochi di Atlanta ’96 – lui, uno dei cinque componenti dello storico “Dream Team”, oltre a David Robinson, Charles Barkley ed alla “inseparabile coppia” degli Utah Jazz, John Stockton e Karl Malone – così come il suo contributo alla causa di Chicago non viene meno nel secondo “Three peat” del triennio 1996-’98, in entrambi i casi superando in Finale proprio gli Utah Jazz, prima che la celebre coppia formata da Michael e Scottie abbandoni la franchigia dell’Illinois, lasciando nella mente di chi ha avuto la fortuna di assistere dal vivo alle loro imprese un ricordo indelebile.

Jordan avrà un terzo rientro a Washington nel biennio 2002-’03 per poi attaccare definitivamente le scarpette al chiodo a 40 anni suonati, mentre Pippen, dopo una stagione ad Houston, si trasferisce per un quadriennio a Portland, dove nel 2000 fallisce di un soffio l’accesso ad una settima Finale per il titolo, con i Trail Blazers sconfitti 84-89 in gara-7 dai Los Angeles Lakers di Kobe Bryant e Shaquille O’Neal dopo aver sprecato un vantaggio di 16 punti, sul 71-55 a loro favore, prima di chiudere la carriera con una passerella davanti al proprio pubblico, indossando per una ultima volta la canottiera biancorossa dei Chicago Bulls.

Ricordate cosa dicevamo a proposito della valenza delle statistiche in uno Sport come il basket …?? Ebbene, quelle di Scottie Pippen recitano (per la stagione regolare …) 18.940 punti, 7.494 rimbalzi e 6.135 assist in 1.178 partite giocate, per delle rispettive medie di 16,1, 6.4 e 5,2 mentre per quanto riguarda i playoff il suo rendimento sale a 17,5 punti, 7,6 rimbalzi e 5,0 assist di media nelle 208 gare disputate, secondo nella storia della NBA solo ai 237 incontri in cui è sceso in campo Kareem Abdul-Jabbar

Che ne pensate, mica male per un “secondo violino”, no?

 

KARL MALONE, IL POSTINO DEL BASKET NBA

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Karl Malone in azione – da basketinside.com

articolo di Nicola Pucci

Lo chiamavanoil postino” perchè, di riffa o di raffa, brutto o bello che fosse, portava sempre a compimento il lavoro. E il suo mestiere di cestista, Karl Malone, lo ha fatto mirabilmente, tra i più efficaci di sempre, con l’unico neo di un anello NBA mai messo al dito.

Ma raccontiamola dal principio la storia di questo gigante dalle proporzioni armoniose, pressochè perfette, 2 metri 06 centimetri per 116 chilogrammi di peso, nato a Summerfield il 24 giugno 1963, che in gioventù indossa la casacca della Louisiana Tech University. Il ragazzo denuncia ben presto un talento raro, ala grande che può giocare spalle a canestro ma con un invidiabile tiro dalla media distanza ed una fisicità esplosiva.

L’NBA lo sceglie al primo giro del 1985, numero tredici in mano agli Utah Jazz, in una sessione che elegge – prima di Karl – Patrick Ewing – che sarà stella parimenti e suo fiero avversario -, Mullin e McDaniel ma anche clamorose bufale come Benjamin, Koncak e Pinckeny. E nella fredda, anonima Salt Lake City Malone disegnarà una carriera favolosa, che si avvia con una stagione da rookie già carica di promesse, 14.9 punti a partita e 8.9 rimbalzi di media a fianco di una stella come Adrian Dantley, un pivottone come Mark Eaton e un giovanotto in regia, scelto l’anno prima, che con lui formerà forse la coppia più performante della storia della Lega.

Già, proprio quel John Stockton – fosforo e intelligenza cestistica allo stato puro – che per i successivi diciotto anni costruisce con Malone le fortune di Utah che ha in panchina un altro fedelissimo, coach Jerry Sloan. I Jazz crescono anno dopo anno, Malone è spesso immarcabile e la sua produttività offensiva lo vede sempre ben oltre i venti punti di media a stagione. Nella stagione 1989-1990 Malone chiude con 31.0 punti a partita, secondo solo a sua maestà Jordan e massimo in carriera, a rimbalzo è sempre in doppia cifra e non fallisce mai l’accesso ai play-off.

Il pick-and-roll, ovvero l’ala grande/centro che blocca a favore del proprio palleggiatore che si trova così libero al tiro, diventa l’azione più gettonata nella manovra di Utah, Stockton to Malone quando il playmaker serve il compagno che nel frattempo taglia verso l’area avversaria per appoggiare a canestro. Lo schema è semplice, forse anche prevedibile, ma Stockton opera una frazione di secondo prima del suo marcatore e Malone in entrata non può essere contenuto.

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Jordan e Malone – da exnba.com

E così Utah vola, anche se sono gli anni del dominio di Chicago e di Jordan. Nell’età della maturità Malone, maglietta numero 32 che verrà ovviamente ritirata a carriera conclusa, che nel frattempo si è meritato ben undici convocazioni consecutive all’All Star Game, che diventeranno quattordici con le altre tre di fine carriera, giunge infine al traguardo più ambito, la finale NBA proprio con i Chicago Bulls. Ma il suo sogno di diventare campione del mondo si infrange contro Jordan, che nel 1997 vince la serie 4-2, e l’anno dopo, proprio strappando palla in gara-6 dalle mani di Malone, mette la parola fine al sogno del “postino“.

Malone continua a segnare a valanga, tanto che i suoi 36.928 punti sono il secondo score di sempre alle spalle di Jabbar, per due volte è MVP dell’anno – 1997 e 1999 – per poi collezionare una serie impressionante di record. Ma ci piace particolarmente ricordare che nelle diciotto stagioni con Utah salta solo nove partite, perchè è ben allenato, ha muscoli da superuomo e coniuga al talento la saggezza di una vita extra-sportiva senza eccessi. Il che, per i campioni NBA, non è proprio una certezza matematica.

Alla veneranda età di 40 anni, saziato anche da due medaglie d’oro olimpiche con il Team Usa, ma non saturo di basket, si trasferisce ai Los Lakers, favoriti per il titolo con un quintetto che si appoggia a Shaquille O’Neal, Kobe Bryant e Gary Payton. Ma qui la dea bendata ci mette lo zampino, Malone per la prima volta in carriera si infortuna al ginocchio destro saltando metà stagione regolare. Torna in corsa per play-off e finale, la terza contro i Detroit Pistons, ma qui il ginocchio fa di nuovo i capricci, gioca zoppo le prime quattro gare per mancare nella quinta, ultima sfida che lo vede ancora perdente all’atto decisivo.

La meravigliosa storia sportiva di Malone si chiude qui, l’anno dopo è free agent, viene accostato a New York e San Antonio ma il 13 febbraio 2005, al Delta Center che è stata la casa dei suoi successi con Utah, annuncia il suo ritiro dall’attività: il “postino“, svolto come meglio non potrebbe il suo lavoro, saluta e se ne va in pensione.