MARCO SIMONCELLI ED IL TITOLO MONDIALE 2008 CONQUISTATO NELLA MALEDETTA SEPANG

articolo di Nicola Pucci

Non nego proprio che in tutti questi anni in cui Sporthistoria ha preso corpo pubblicando articoli in serie di storia della sport, ho esitato nel raccontare le gesta su due ruote in pista di Marco Simoncelli. Perché la tragica parabola esistenziale del campione emiliano mi ha imposto di ricordarlo più col silenzio e il cordoglio che con le parole. Ma il tempo, tiranno inesorabile, fa il suo corso, ed allora, nei giorni in cui si corre a Sepang, la maledetta Sepang, proprio lì dove tutto ebbe inizio e purtroppo anche una fine, mi preme ora scrivere qualcosa di quel magico 2008, quando il Sic timbrò con il suo nome il Motomondiale, regalandosi, oltre a quell’immortalità concessa dal ricordo, anche un posto fisso nell’albo d’oro. Ed è un merito, davvero, che pochi si son saputi guadagnare.

Classe 1987, Simoncelli debutta in classe 125 nel 2002, poco più che 15enne, e se gareggia nell’ottava di litro per un quadriennio, sempre in sella ad un’Aprilia, ecco che comincia già a gettare le basi di una carriera che lo consacrerà tra i grandi delle due ruote. Coglie infatti un primo successo nel 2004 in Spagna, sul tracciato di Jerez de la Frontera, bissando sullo stesso circuito l’anno dopo, il che gli consente, a fine stagione e col corollario di di altri cinque piazzamenti sul podio, di concludere al quinto posto nella graduatoria piloti, 177 punti contro i 242 punti dello svizzero Thomas Luthi.

L’anno dopo, 2006, Marco sale di categoria, passando in classe 250, e se c’è una cosa che più di ogni altra mi fa apprezzare a posteriori ancor più il ragazzo di Cattolica, è che lo fa rimanendo fedele ai colori italiani, montando in sella ad una Gilera RSA250 non ufficiale che se nei primi due anni di permanenza non lo vede andare oltre due decimi posti in classifica generale, gli spalanca altresì le porte della stagione 2008 che, davvero, sarà memorabile.

Pur non correndo, appunto, con una moto ufficiale, e a dispetto di un inizio non proprio ottimale con due cadute che compromettono le gare in Qatar e a Jerez, Simoncelli mostra appieno tutto il suo talento già in Portogallo, firmando la pole-position e terminando poi secondo alle spalle di Alvaro Bautista. Proprio lo spagnolo, che guida l’Aprilia, sarà il rivale più accreditato nella corsa al titolo mondiale, che diventa l’obiettivo stagionale di Marco dopo aver colto un altro secondo posto in Francia ed aver trionfato al Mugello in un tripudio di bandiere tricolori. Il finlandese Mika Kallio, con la sua KTM, funge da terzo incomodo nella lotta di vertice, ma è tra Simoncelli, con la sua Gilera RSA250 del team Metis, che si fa forte della sua giovanile esuberanza, e Bautista che si gioca per la gloria finale. E la sfida si sviluppa a furia di sorpassi e staccate al limite, con l’italiano che dopo il successo casalingo a Scarperia si impone anche in Catalogna bruciando il rivale il volata, e lo spagnolo che ad Assen si conferma il più veloce. Guadagnatosi infine una moto competitiva ai massimi livelli, Simoncelli domina al Sachsenring, lasciando Kallio ad oltre 10″, e quando poi, dopo un terzo posto a Brno e due altre vittorie in Giappone ed in Australia, si presenta il 19 ottobre sulla pista malese di Sepang, ha già il titolo mondiale a portata di… ruota.

Simoncelli ha 240 punti in classifica contro i 204 punti del suo avversario diretto, e nel caso in cui Bautista dovesse vincere le due ultime gare, appunto in Malesia e poi a Valencia, al pilota della Gilera sarà sufficiente un terzo posto per conquistare la matematica certezza del titolo iridato. Ed è esattamente quel che accade, con Simoncelli, con il suo numero 58 destinato a diventare un simbolo iconico del motociclismo, che fa segnare il terzo tempo in qualifica alle spalle del giapponese Hiroshi Aoyama e dello stesso Bautista e libra con loro un duello in sicurezza per il podio che se a fine giornata vede l’iberico e il nipponico invertirsi le posizioni, infine, col terzo posto ad 8″ dal vincitore di giornata, consacra Simoncelli campione del mondo. Col suggello di un’ultima vittoria a Valencia e consegnando, a distanza di 51 anni dal trionfo di Libero Liberati nel 1957, un nuovo titolo mondiale alla Gilera.

Sepang, maledetta Sepang. Perché quel meraviglioso 19 ottobre 2008 altro non sarà che il preludio del tragico 23 ottobre 2011, quando il volo ad ali spiegate di quel ragazzo con i riccioli ed il sorriso che conquista si interromperà. Per sempre. Ed allora, caro Sic, perdonami se da quel giorno ho interrotto il silenzio ed il cordoglio per ricordare le tue imprese.

HUGH ANDERSON, L’UNICO NEOZELANDESE CAMPIONE DEL MONDO DI MOTOCICLISMO

articolo di Nicola Pucci

Fra i quattro laureati per sei titoli del motomondiale del 1963, ce n’è uno solo di fresca nomina, mai giunto prima alla massima conquista cui aspira un centauro. Quel novizio in cima al mondo altri non è che il neozelandese Hugh Anderson, che si prende il merito di essere il migliore di tutti, e non sarà l’unica volta in carriera, completando un exploit che mai più nessun altro connazionale sarà in grado di emulare.

Nato ad Hamilton il 18 gennaio 1936, già giocatore di rugby (e potrebbe essere altrimenti nella patra degli All Blacks?) in gioventù con l’Huntly United, Anderson proviene da quel famoso “Circus Continental” nelle cui file hanno militato quasi tutti i piloti del Commonwealth. E se Hugh è il prototipo dello zingaro in motocicletta, non lo sarà poi per molto, perché quando approda nel massimo circuito internazionale, dopo un paio di stagioni corse in sella ad una AJS (terzo in classe 350 nel Gran Premio dell’Ulster nel 1960 alle spalle di John Surtees e di John Hartle) ed alla Norton (due volte settimo in classe 500 in Francia e a Monza), nel 1962 viene messo sotto contratto dai giapponesi, solitamente molto ospitali con i conduttori di lingua inglese, accasandosi con la Suzuki. Che lo impegna nelle due cilindrate minori, 50 e 125 cc, seppur sporadicamente gareggi ancora in classe 350 con la AJS (sesto al Tourist Trophy) e in classe 500 con la Matchless (con la quale somma solo un paio di ritiri, sempre al Tourist Trophy e nell’Ulster).

Pallido, viso da ragazzo spericolato con la mascella piccola e tirata, Anderson porta un nome già reso celebre da altri, in particolare da quel Fergus Anderson che nel 1953 e nel 1954 ha fatti suoi due titoli mondiali in classe 350 in sella ad una Moto Guzzi, prima di trovare una tragica morte a Floreffe con una BMW nel 1956. E per non essergli da meno, il neozelandese nel 1962 inizia la sua personale scalata al titolo mondiale.

Tanto per cominciare, vince le sue prime gare iridate, trionfando in Argentina, ultima prova dell’anno, sia in classe 50 (davanti al campione del mondo Ernst Degner) che in classe 125 (battendo Raul Kissling, pilota di casa), il che gli consente non solo di regalare le prime gioie stagionali alla Suzuki che ha creduto in lui, ma anche di terminare al settimo posto in classifica generale in entrambe le cilindrate. Ideale trampolino di lancio per le stagioni che hanno da venire, che consacreranno Anderson pilota di levatura mondiale.

Nel 1963, infatti, Hugh, che sfoggia foga e spericolatezza seppur il suo stile, soprattutto in curva, non sia davvero dei più ortodossi, conquista il titolo iridato in classe 50 vincendo ad Hockenheim ed in Argentina e col corollario di quattro secondi posti che gli permettono di precedere in classifica di soli 2 punti il tedesco Hans-Georg Anscheidt, che monta una Kreidler, e domina in classe 125, dove bissa il successo mondiale aggiudicandosi ben 6 gran premi, lasciando lo svizzero Luigi Taveri, centauro Honda, a distanza di sicurezza, 54 punti contro 38.

Giunto all’apice, Anderson, che si trova a meraviglia con le motoleggere del Sol Levante che si adattano perfettamente al suo fisico non certo da gigante, ha tutta l’intenzione di rimanerci a lungo, e per il 1964 punta a confermarsi campione nelle due cilindrate che ha eletto come suoi territori di conquista. Ma se in classe 50 il neozelandese coglie quattro successi che gli permettono di tenere a bada la Honda di Ralph Bryans, in classe 125, pur vincendo all’apertura stagionale a Daytona e poi ancora al Sachsenring e nell’Ulster, deve cedere il passo alle due Honda di Taveri e Jim Redman, che lo anticipano in classifica negandogli il poker iridato in due anni.

E sia, la rivincita è rimandata all’anno venturo, 1965, quando Anderson, battagliero come non mai, deve è vero accontentarsi del terzo posto finale in classe 50, vincendo solo in Spagna e con quattro secondi posti terminando alle spalle delle Honda di Bryans e Taveri, ma sbaraglia nuovamente la concorrenza in classe 125, al punto da vincere le prime quattro prove stagionali a cui aggiungere i successi in Finlandia, a Monza e in Giappone che gli consentono, con 56 punti totali, di precedere nettamente il compagno di squadra Frank Perris, secondo in classifica mondiale con 44 punti.

Con quattro titolo iridati già in cassaforte, Hugh Anderson avrebbe ancora qualche buona carta da giocare al tavolo del motorismo internazionale, ma se il 1966 non è pari alle attese, sommando cinque piazzamenti sul terzo gradino del podio che gli valgono, rispettivamente, un quarto ed un quinto posto in classifica generale, ecco che è già l’ora di parcheggiare, definitivamente, la moto da corsa.

Perché ora è tempo di motocross, e se i risultati non saranno altrettanto di pregio, che importa? Nel 1995 la “Motorcycles Hall of Fame” del suo paese lo accoglie, sperando che prima o poi tra i “kiwi” nasca un nuovo prodigio su due ruote. E’ dal 1965 che Hugh Anderson attende un erede sul tetto del mondo

IL BIENNIO 1978/1979 E I QUATTRO TITOLI MONDIALI DI KORK BALLINGTON

articolo di Nicola Pucci

Al di là del fatto che sia stato il primo sudafricano, seppur nato in Rhodesia, nonché il più vincente di quel lontano paese, a conquistare un titolo iridato del motociclismo, Kork Ballington fu capace di siglare un poker di vittorie in sole due stagioni come solo alcuni dei grandissimi (Ubbiali, Agostini, Surtees, Redman ed Hailwood) seppero fare. Il che lo eleva al rango di fuoriclasse assoluto delle due ruote.

Nato, appunto, a Salisbury, l’attuale Harare, nella Rhodesia Meridionale, il 10 aprile 1951, Ballington fin da giovane eccelle nelle competizioni su strada, il che gli apre le porte delle corse in Gran Bretagna, proprio lì dove si costruisce un campione. E a far data 1976, infiltra il motomondiale, guidando una bicilindrica Yamaha privata, doppiando l’impegno in classe 250 con quello in classe 350.

Noto per i baffi e gli occhiali, Ballington, che è sudafricano a tutti gli effetti, già al primo anno nel principale circuito internazionale trova modo non solo di cogliere un secondo posto nella quarto di litro al Nurburgring, battuto dalla Harley-Davidson di Walter Villa, ma pure di conquistare un primo successo in classe 350, il 19 settembre 1976 sul circuito catalano del Montjuic, dove anticipa sul traguardo altri due piloti Yamaha, lo spagnolo Victor Palomo e Franco Uncini, quest’ultimo autore di una prodigiosa rimonta.

Rispettivamente 13esimo e 12esimo al termine dell’anno nelle due classifiche iridate, per il 1977 Ballington si migliora ulteriormente, vincendo in classe 250 a Silverstone, davanti al venezuelano Aldo Nannini e al francese Eric Saul, su un tracciato dove fa sua anche la gara della classe 350 anticipando Olivier Chevallier e John Williams, entrambi piloti Yamaha. E se con la 350 è il più veloce anche su quella pista di Assen che certifica la stoffa di un centauro, prendendo il comando della gara al secondo giro per non lasciarlo più, infine precendendo di poco più di 1″ i due francesi Michel Rougerie e Patrick Fernandez, ecco che il sesto ed il quinto posto in classifica generale gli valgono l’interessamento della Kawasaki, che lo mette sotto contratto per il 1978. Ed è la chiave di volta della sua carriera.

Con le due bicilindrice KR250 e KR350 Ballington già al primo anno si rivela velocissimo e ancor più competitivo, debuttando con un quinto posto in Venezuela ed un quarto in Spagna nella quarto di litro, mentre è ai piedi del podio nella classe superiore. E con il successo in Austria in classe 350 distanziando nettamente Uncini, inizia quella cavalcata che a fine anno produrrà frutti copiosi.

Il giapponese Takazumi Katayama, che guida una Yamaha, è il rivale più accreditato per il titolo mondiale, ma Ballington lo tiene facilmente a bada, dominando la stagione con altre cinque vittorie, al Mugello (davanti al collega di scuderia Gregg Hansford), ad Assen (quando lascia Gianfranco Bonera ad 11″6), in Finlandia (proprio battendo Katayama), a Silverstone (Tom Herron è secondo a 10″2) e in Cecoslovacchia (di un soffio su Hansford), per un conteggio finale che recita Ballington punti 134, Katayama punti 77.

Più contrastata è la corsa nella quarto di litro, sebbene ci sia da avere la meglio dello stesso Hansford, che col secondo posto finale conferma la superiorità della Kawasaki. Ballington colleziona quattro successi, al Mugello (superando Hansford nelle battute conclusive), in Finlandia (con Hansford che stavolta giunge a 29″2), al Nurburgring ed in Cecoslovacchia (con Hansford che è costretto sempre ad alzare bandiera bianca), e col terzo posto nell’ultima prova all’Automotodrom Grobnik alle spalle del compagno di squadra e di Anton Mang, si assicura il titolo mondiale, 124 punti contro 118.

L’anno dopo, 1979, Ballington è pronto per concedere il bis, forte di una motocicletta che si conferma nettamente superiore alla concorrenza, ed almeno il classe 250 non c’è davvero storia. Il sudafricano si impone infatti in ben 7 delle 11 prove in programma (in verità sarebbero 12, ma i piloti più importanti boicottarono il Gran Premio del Belgio in quanto la pista del circuito di Spa, completamente rifatta, scatena le proteste perché ritenuta pericolosa e impraticabile), ed a fine stagione con 141 punti totali contro gli 81 punti dell’immancabile Hansford si conferma campione del mondo.

Invertendo la storia dell’anno precedente, stavolta Ballington deve sudare le proverbiali sette camice per far suo il titolo iridato della classe 350. La Yamaha del francese Patrick Fernandez si rivela ostica da domare, e se il transalpino fa della regolarità la sua arma vincente, Ballington è il più veloce di tutti vincendo in Austria (l’altro sudafricano John Ekerold è secondo a 2″4), al Montjuic (battendo Hansford), all’Automotodrom Grobnik (davanti al finlandese Pekka Nurmi), in Inghilterra (con Hansford sempre secondo) e in Cecoslovacchia (lasciando Anton Mang in scia e dopo una lotta serrata con Fernandez), giorno in cui acquisisce la certezza matematica del secondo titolo mondiale consecutivo. 99 punti contro 90, e per Ballington, in due anni con la Kawasaki, sono quattro successi iridati su quattro.

Con un palmares da leccarsi i baffi (è davvero il caso di dirlo, quando si tratta di Kork, che all’anagrafe è registrato come Hugh Neville), Ballington nel 1980 opta per il salto nella classe regina, la 500, con la non certo taciuta illusione di ottenere quelle vittorie già conquistate nelle due classi minori. La Kawasaki KR500 è una quattro cilindri a due tempi di sicuro affidamento, ma se infine nei tre anni che seguono il sudafricano non andrà oltre due terzi posti nel 1981 ad Assen (alle spalle di Marco Lucchinelli e Boet Van Dulmen) e in Finlandia (battuto ancora dalle Suzuki di Lucchinelli, che a fine stagione sarà campione del mondo, e Randy Mamola), ecco che conviene ricordare che nel 1980 per poco Ballington non cala il tris in classe 250, cogliendo le ultime cinque di una serie di 31 vittorie parziali e, pur non prendendo il via ai Gran Premi di Jugoslavia, Olanda e Belgio a causa di problemi intestinali occorsogli prima del Gran Premio di Jugoslavia, che lo obbligano ad un intervento chirurgico e alla conseguente riabilitazione, terminando in classifica alle spalle di Anton Mang, 87 punti contri 128 punti.

Poi, il ritiro a fine 1982 e l’introduzione, a far tempo 2018, nella MotoGP Legends Hall of Fame. Perché Kork Ballington, senza se e senza ma, è stato un grandissimo. Ed in Sudafrica mai più uno forte come lui.

NEL 1962 ERNST DEGNER E’ IL PRIMO CAMPIONE DEL MONDO DELLA CLASSE 50

articolo di Nicola Pucci

Se il campionato del mondo di motociclismo apre la sua enciclopedia iridata nel 1949, ovvero un anno prima che la Formula 1 abbia a sua volta una rassegna che inviti a sfidarsi a singolar tenzone i piloti più abili del pianeta, la classe 50 inizia la sua avventura solo nel 1962, dopo che l’anno precedente la FIM (Federazione Internazionale di Motociclismo) aveva già organizzato una serie di gare di prova in Europa.

Si comincia dalla Spagna, sul circuito barcellonese del Montjuich, il 6 maggio 1962, ed alle 9.20 19 centauri si allineano alla partenza, con la Honda dello svizzero Luigi Taveri ad aver segnato il miglior tempo in prova e la Kreidler, casa motociclistica olandese specializzata nelle piccole cilindrate e al debutto nel motomondiale, del tedesco Hans-Georg Anscheidt ad inseguire. Ed è proprio il teutonico Wolfgang Gedlich, proprio in sella ad una Kreidler, a comandare la gara, alternandosi con la Derbi dello spagnolo José Maria Busquets, prima che lo stesso Anscheidt, con una motoleggera fantastica dotata di motorino a due tempi grosso come un pugno, pesante meno di 50 chilogrammi e con la novità del cambio in blocco a dodici rapporti, scavalchi entrambi, librando un gran duello con l’iberico, risolto per l’inezia di 0″68 centesimi.

Sette giorni dopo, il 13 maggio, il carrozzone mondiale si sposta in Francia, a Clermont Ferrand, nella pittoresca zona montuosa dell’Auvergne, ed ancora una volta la Kreidler la fa da padrona, vincendo la seconda gara consecutiva, seppur stavolta con un attore non certo atteso. A tagliare per primo il traguardo è infatti l’olandese Jan Huberts, che recupera ben 26 secondi di svantaggio alla coppia al comando della corsa formata dai due piloti Honda Kunimitsu Takahashi e Luigi Taveri, che facendo gioco di squadra si aspettano vicendevolmente consentendo a Huberts di beffarli entrambi, con la Suzuki, competitiva ben oltre i piazzamenti nelle retrovie di Barcellona, che manda a punti Seiichi Suzuki, Mitsuo Itoh e il tedesco Ernst Degner, rispettivamenti quarto, quinto e sesto.

Degner, proprio lui, merita qualche cenno a parte, perché tra poco diventerà l’indiscusso protagonista della nostra storia odierna. Classe 1931, nato in Polonia a Gliwice, già da qualche anno gareggia nel motomondiale, e lo fa con tale perizia da aver colto ben cinque successi in classe 125 (Monza 1959, Belgio 1960 ed Hockenheim, Sachsenring ed ancora Monza nel 1961, quando chiude al secondo posto in classifica generale alle spalle di Tom Phillis). E se vanta anche tre podi in classe 250 (terzo nell’Ulster e secondo sempre a Monza nel 1959, terzo al Gran Premio delle Nazioni nel 1960), ecco che per la stagione 1962, quando in seguito alla costruzione del Muro di Berlino riesce a fuggire dalla Germania Est riparando prima in Danimarca e poi nella parte occidentale della Germania, viene assoldato dalla Suzuki, mettendo il suo fiuto tecnico, appreso con la MZ quando agiva da braccio destro dell’ingegner Kaeden nella messa a punto delle “due tempi” tedesche, al servizio della casa motociclistica nipponica. Ed i risultati, insieme alle accuse di aver portato con sé le copie dei progetti delle nuove camere di espansione e delle migliorie al disco rotante, dopo le prime due gare non certo esaltanti arrivano puntuali.

Al Tourist Trophy, terza gara stagionale, l’8 giugno, nel giorno in cui per la prima volta una donna, Beryl Swain, inglese madre di due figli, in sella ad una Itom, compete con i colleghi maschi, Degner sbaraglia la concorrenza, distanziando nettamente Taveri e Tommy Robb, segnando pure un giro record a 75,52 miglia orarie ed ottenendo la prima di una serie di quattro vittorie consecutive che lo proiettano al comando della classifica generale.

Il tedesco della Suzuki, infatti, bissa ad Assen, anticipando di 8 secondi le due Kreidler di Huberts ed Anscheidt, cala il tris a Francorchamps, dove Anscheidt vede il suo ritardo dilatarsi a 20 secondi, e completa il poker in Germania, sul circuito della Solitude, quando i due principali contendenti per il il titolo mondiale sono separati, stavolta, di 23 secondi.

Scavallata la boa di metà stagione, Degner comanda la graduatoria iridata con 32 punti, Anscheidt lo insegue a 27 punti con qualche ambizione di poter ribaltare la situazione, e Taveri gioca il ruolo di terzo incomodo, seppur i sui 21 punti sembrino insufficienti per poterlo, di forza, considerare un pretendente autorevole al titolo mondiale. Ma se in Ulster la classe 50 non gareggia, ecco che la sorte concede una chance in più a chi insegue Degner in classifica, visto che il leader è infortunato e al Sachsenring, anche per evitare qualsiasi problematica politica dopo il suo passaggio in Germania Occidentale dell’anno precedente, non si presenta sulla linea di partenza. Anscheidt non ne approfitta, costretto com’è al ritiro, ed allora, a rifarsi sotto, è Huberts, che vince ed incassa otto punti, così come Taveri, quarto alle spalle anche delle due Suzuki di Itoh e Hugh Anderson, che con tre punti torna in scia.

A Monza, ancora assente Degner che non ha recuperato dall’infortunio, Anscheidt vince superando Itoh e il compagno di squadra Huberts, che comandava la gara ma cade complice la rottura di un anello del pistone, e con gli otto punti del primo posto riprende la testa della classifica, annunciando due ultime gare, in Finlandia e in Argentina, davvero appassionanti.

Il motomondiale gareggia per la prima volta sul tracciato di Tampere, e le Honda dominano la concorrenza, piazzando due piloti ai primi due posti, con Taveri primo sotto la bandiera a scacchi davanti a Robb e Anscheidt terzo a soffiare il gradino più basso del podio a Degner. Ma visto che ai fini della classifica generale si possono sommare solo i migliori sei risultati, prima di recarsi in Argentina per l’ultima prova in calendario, Anscheidt e Degner sono separati da un solo punto, 36 contro 35… e la battaglia risolutiva si annuncia, davvero, all’ultima staccata.

Il 14 ottobre 1962 Anscheidt e Degner sono pronti per l’ultimo testa-a-testa, e visto la difficoltà del trasferimento in Sudamerica, solo i piloti delle due marche in lizza per il titolo iridato, Kreidler e Suzuki, sono presenti all’appello. In virtù dei risultati ottenuti in stagione, e per la formula degli scarti, a Degner basta un secondo posto per diventare campione del mondo, ed è proprio il piazzamento che il pilota di Gliwice, in sella alla sua Suzuki RM62, ottiene, terminando alle spalle del compagno di squadra Anderson, a cui, per l’occasione, viene non solo fatta guidare la velocissima nuova versione della Suzuki RM63, ma pure ordinato di attendere Degner per aiutarlo, sfruttandone la scia, a superare l’irriducibile Anscheidt. Che, preso in mezzo, alza bandiera bianca.

Ernst Degner è il primo campione del mondo della classe 50, ed è curioso, nonché affascinante, pensare che sia anche l’unico pilota di una nazione facente parte del Patto di Varsavia ad esserci riuscito.

TARU RINNE, UNA DONNA NEL MOTOMONDIALE

articolo di Nicola Pucci

L’anno 1989 vede per la prima volta una donna recitare da protagonista in una gara del motomondiale. E’ in effetti la stagione che iscrive il nome di Taru Rinne negli annali della storia dello sport al femminile, perché non solo una ragazza gareggia con i colleghi maschietti, ma è pure tanto brava da mettere le sue ruote davanti a quelle di molti di loro.

Finlandese di Turku classe 1968, la Rinne denuncia passione per i motori fin da giovincella, prediligendo in principio le quattro ruote se è vero che debutta col karting prendendosi il lusso, a far data 1979, di vincere il campionato nazionale della classe 85 cm (cubici) battendo un certo Mika Hakkinen, piazzandosi poi al secondo posto nei due anni successivi quando a superarla in classifica, oltre a Mika Salo nel 1980, è lo stesso Hakkinen nel 1981. E se nel 1982 riconquista il titolo, facendo meglio ancora di Hakkinen e di Ninna Osterholm, negli anni che seguono, una volta abbandonato il karting, opta per montare in sella ad una motocicletta, non mancando davvero di dimostrare di saperci fare. Tanto che nel 1987 ha l’onore di debuttare nel principale circuito internazionale, quello appunto del Campionato del Mondo di motociclismo, competendo in classe 125 al soldo della MBA.

Ritirata in Svezia, 20esima in Cecoslovacchia e non qualificata a San Marino, la Rinne si migliora l’anno dopo, 1988, quando in sella ad una Honda coglie il 14esimo posto al Gran Premio di Francia corso sul circuito del Paul Ricard, collezionando i primi, storici punti di una donna-centauro. Ed il bello deve ancora venire.

Nel 1989, infatti, Taru è protagonista di qualcosa di mai visto prima, e che non si replicherà mai poi. Dopo un paio di piazzamenti nelle retrovie in Spagna (15esima, il che le vale 1 punto iridato) e Misano (19esima), ecco che la pista di Hockenheim, in Germania, è teatro di un’impresa indimenticabile. Su quel tracciato, infatti, la motociclista finlandese in prova fa segnare un clamoroso secondo tempo, alle spalle del solo Ezio Gianola, altro pilota Honda, prendendosi l’enorme soddisfazione di far meglio di quel Jorge Martinez che altri non è che il campione del mondo in carica della classe 125. E se in partenza, il 28 maggio, scivola in settima posizione, la Rinne, con la sua sgargiante tuta giallo-bianca, il sorriso malizioso e l’audacia dei suoi 20 anni, intraprende una rimonta furiosa che a suon di sorpassi al cardiopalmo e staccate al limite la portano nuovamente in seconda posizione, incollandosi alla ruota di Gianola. La battaglia per il primo posto è avvincente, ma col passare dei giri l’esperienza ed anche la resistenza alla fatica dei colleghi piloti hanno il sopravvento sull’entusiasmo femminile di Taru, che retrocede al quarto posto, lotta ancora con Hans Spaan per conservare un posto sul podio, ed infine si deve accontentare del settimo posto, a 10 secondi da Alex Criville che con la sua JJ Cobas incamera un successo che fa da preludio al titolo iridato conquistato a fine stagione.

Taru Rinne sarà ancora ottava ad Assen, proprio lì dove si certifica più che altrove la classe di un centauro, dodicesima in Cecoslovacchia e quindicesima in Svezia, collezionando 23 punti iridati e terminando 17esima in classfica generale. Ditemi voi se non è davvero una meravigliosa storia di sport al femminile?

LA STAGIONE 1975 DA RE DELLA CLASSE 125 DI PAOLO PILERI

articolo di Nicola Pucci

Quando Paolo Pileri si affaccia alla nuova stagione 1975 del motomondiale, conteggia, in quattro anni di praticantato, un terzo posto in classe 250 al Gran Premio del Belgio nel 1973 quando, in sella ad una Yamaha privata, termina in scia a Teuvo Lansivuori e John Dodds, ed una piazza d’onore l’anno in classe 125 al Gran Premio della Cecoslovacchia quando, infine al soldo ufficiale della Morbidelli, si arrende solo a Kent Andersson.

Non moltissimo, dunque, per questo ragazzo di Terni, classe 1944, cresciuto ovviamente nel mito di Libero Liberati, l’altro grande motociclista di quella città, che curiosamente è figlio di Centauro Pileri che, a dispetto del nome, non vede troppo di buon occhio la passione del figlio per i motori da corsa. Quando poi, nel 1962, lo stesso Liberati perde tragicamente la vita cadendo lungo la Strada Statale 209 Valnerina, il cattiv’occhio del padre si trasforma addirittura in fiera opposizione, tant’è che Paolo, almeno agli esordi in moto, si vede costretto a correre usando false generalità.

E sia, questo è l’inizio dell’attività in motocicletta a metà degli Anni Sessanta di Paolo Pileri, che ci sa però indubbiamente fare tanto da classificarsi nel 1969 al secondo posto nel campionato juniores di velocità, in sella alla mitica Aermacchi Aletta 125. Fino ad avere la possibilità, a far data 1971, di debuttare nel Campionato Mondiale di Motociclismo in classe 125 proprio con l’Aermacchi, collezionando il 13esimo posto al Gran Premio del Belgio corso sul tracciato di Spa che un paio di anni dopo, appunto, gli regalerà la prima soddisfazione iridata.

Nel frattempo Pileri gareggia con motociclette private, come Suzuki in classe 125 e Yamaha in classe 250 nel 1972, figurando in classifica solo al Gran Premio del Belgio, rispettivamente 13esimo e 18esimo, per poi, nel 1973, infine andare non solo a punti nell’ottava di litro con il nono posto al Gran Premio d’Austria con una DRS, ma proprio salire sul gradino più basso del podio, sempre a Spa, in classe 250, confermando le sue buone qualità due settimane dopo a Brno quando, sempre montando una Yamaha privata, chiude al quarto posto. Piazzamenti, questi ultimi due, che gli meritano l’interessamento della Morbidelli che per il 1974 lo mette sotto contratto come pilota ufficiale, in sostituzione di Angel Nieto, che dopo un anno di militanza con la casa di Pesaro torna alla Derbi.

In effetti nel 1974 Pileri, che in classe 250 gareggia ancora con la Yamaha ottenendo solo un ottavo posto in Olanda sul tracciato di Assen che gli garantisce gli unici tre punti iridati della stagione, si occupa essenzialmente della messa a punto e dello sviluppo della sua Morbidelli, ritirandosi proprio in Olanda per poi, al Gran Premio della Cecoslovacchia, conoscere dolore e gioia. Dolore perché in prova cade fratturandosi una spalla, gioia perché, a dispetto del grave infortunio, insiste per scendere in pista, si avvia dall’ultima fila, opera una rimonta folle che lo vede portarsi in testa alla gara prima di rimanere a secco di benzina sul rettifilo d’arrivo venendo scavalcato da Andersson che lo relega in una beffarda seconda posizione. Che, appunto, quando inizia la stagione 1975, è il suo miglior risultato in carriera.

Per la nuova edizione del Motomondiale Pileri in Morbidelli ha al suo fianco Pier Paolo Bianchi, ed è insieme a lui che lancia il guanto di sfida alle due Yamaha dello svedese Kent Andersson e dello svizzero Bruno Kneubuhler, che hanno dominato la stagione precedente. Ed all’esordio, sul tracciato francese del Paul Ricard di Le Castellet, i quattro attesi protagonisti scattano dalla prima fila, con i due stranieri avanti e i due azzurri ad inseguire. Ma già al primo giro Pileri e Bianchi cadono a terra, e se Bianchi è costretto all’abbandono, Pileri si rimette prontamente in moto operando una rincorsa che, infine, lo proietta al terzo posto alle spalle dello stesso Andersson e dell’altro svedese Leif Gustafsson, altro centauro Yamaha che dal compagno di squadra ha ereditato il mezzo meccanico che gli aveva consentito di vincere il titolo nel 1974.

Il terzo posto in Francia è solo il preludio, in parte sfortunato, di quella che è una stagione che poi Pileri disputa con il piglio del dominatore assoluto. Il campione ternano, che guida veloce, somma infatti ben sette successi consecutivi, a cominciare dal Gran Premio di Spagna, a Jarama, quando il pilota di casa Benjamin Grau è il più veloce in prova e pure competitivo in una gara in cui Pileri, dopo che lo stesso Grau, partito al rallentatore, era riuscito a recuperare il comando della corsa prima che una caduta lo togliesse di mezzo, vince lasciando Andersson ad oltre 30″.

In Austria, al Salzburgring, le Morbidelli dominano la gara fin dal primo giro, con Bianchi a condurre e Pileri alle sue spalle seminando la concorrenza, fin quando, all’ultima tornata, gli ordini di scuderia impongono a Bianchi di lasciarsi sfilare per concedere a Pileri l’onore del successo, visto che è lui, dopo due prove, il centauro su cui la casa di Pesaro punta per la conquista del titolo iridato.

Ed in effetti il ternano non tradisce davvero le attese che la squadra ripone su di lui, trionfando anche in Germania, ad Hockenheim, dove la superiorità della Morbidelli è ancora più marcata che in Austria, ed esattamente come allora Bianchi conduce d’autorità la gara, distanziando Pileri di sette secondi. Ancora una volta, però, a Pier Paolo tocca tirare, e pure tanto, i freni, in modo che il leader possa scavalcarlo ed infilare il terzo successo di fila.

Successi che poi diventano quattro ad Imola, al Gran Premio delle Nazioni, quando il copione si ripete, con Bianchi a far da lepre e Pileri ad inseguire, fin quando, ed orami è cosa nota, all’ultimo giro le posizioni si invertono perché gli ordini di squadra vanno rispettati e Bianchi è, davvero, un uomo d’onore.

Pileri cala la cinquina ad Assen, sul tracciato dove più che altrove si vede la classe del pilota e la forza di una moto, ancora una volta correndo in parata con Bianchi che, al solito, all’ultimo giro cede il primo posto che aveva tenuto per tutta la gara.

La lotta per il titolo, se di lotta si può parlare, sarebbe ormai un affare privato in casa Morbidelli tra Pileri e Bianchi, con Andersson, Gustafsson, Kueubuhler ed Eugenio Lazzerini, che guida una Piovaticci, che si danno battaglia per il terzo posto della classifica generale, e nella gara che segue, a Spa per il Gran Premio del Belgio, Pileri finalmente è proprio il più veloce di tutti, conquistando la matematica certezza del titolo iridato con ben tre gare ancora da disputare.

In Svezia, ad Anderstorp, Bianchi e Pileri tornano a giocare di squadra, con il primo che comanda la gara per poi lasciare la vittoria al secondo, che chiude il “settebello“, consecutivo, di successi prima che le due ultime prove in Cecoslovacchia e Jugoslavia, a Brno e a Fiume, vinte da Leif Gustafsson (Pileri cade quando era saldamente al comando) e Dieter Braun (assoldato per l’occasione dalla Morbidelli in sostituzione di Pileri e Bianchi infortunati), suggellino una stagione che proietta Paolo Pileri tra i grandi della storia del Motomondiale.

Col corollario, negli anni che verranno, di altri nove podi (6 in classe 125, 2 in classe 250 ed 1 in classe 350) e di un’ottava, ultima vittoria mondiale nel 1978 quando, nella quarto di litro, sempre pilotando una Morbidelli, si lascia alle spalle un certo Franco Uncini. E sapete dove? Al Gran Premio del Belgio, a Spa, proprio lì dove tutto ebbe inizio.

NEL 1984 IL TITOLO MONDIALE IN CLASSE 250 DI CHRISTIAN SARRON PRIMA DEGLI ANNI IN CLASSE 500

articolo di Nicola Pucci

La stagione 1984 in classe 250 di Christian Sarron è indimenticabile per almeno un paio di buone ragioni: in primis, regalò al 27enne transalpino di Clermont-Ferrand il titolo mondiale, secondo francese nella lunga storia del motomondiale a riuscire nell’impresa dopo Jean-Louis Tournadre che si impose, sempre nella quarto di litro, due anni prima, in secundis, fu il preludio del suo ingresso nella classe regina, la 500, dove fino al 1990, anno in cui appese il casco al chiodo, fu uno dei protagonisti più apprezzati e costanti nel rendimento. Tanto da chiudere per ben sei stagioni consecutive nella top-ten della classifica piloti.

1984, dunque, anno in cui Sarron è atteso quale pretendente al titolo iridato dopo che nella stagione precedente si è dovuto accontentare (usando un eufemismo) del secondo posto alle spalle del venezuelano Carlos Lavado. In effetti, la piazza d’onore in classe 250 è solo il coronamento di un lungo inseguimento alle prime posizioni che il francese ha iniziato fin dall’anno del debutto, 1976, quando, grazie all’amicizia con Patrick Pons, entra a far parte del team Yamaha. E se il primo anno non regala grandi soddisfazioni a Sarron, già nel 1977 ecco giungere una prima vittoria al Gran Premio di Germania, superando in volata il giapponese Akihiko Kiyohara, a cui sommare tre piazzamenti sul podio in classe 350 che a fine stagione gli valgono la settima posizione finale in classifica piloti.

Nelle quattro stagioni che seguono Sarron abbandona momentaneamente la classe 250 per correre due anni in classe 350, peraltro senza confermare i risultati del 1977, provando anche tra il 1979 e il 1981 a ritagliarsi una vetrina importante in classe 500, senza dimenticarsi anche della Formula 750 in cui è secondo nel 1977 e terzo nel 1978. Ma nella mezzo di litro i risultati non sono all’altezza delle aspettative, e nel 1982 Sarron decide di ridimensionare le sue ambizioni, tornando alla classe 250, che almeno per il primo anno alterna alle gare in classe 350.

Proprio in classe 250 ritrova la vittoria, battendo Didier de Radigues in Finlandia, sul tracciato di Imatra, per poi, col corollario dell’eccellente anno 1983 che lo vede, appunto, secondo in classifica con 73 punti, vincendo in Svezia, terminando secondo in Spagna (battuto dal connazionale Hervé Guilleux), in Jugoslavia (beffato da Lavado) e in Belgio (anticipato proprio da de Radigues) e chiudendo terzo a Silverstone, affacciarsi alla stagione 1984 con l’intenzione di dare l’assalto al titolo iridato.

Carlos Lavado, altro pilota Yamaha, difende il successo dell’anno precedende ed è il candidato più autorevole alla vittoria finale, ma che Sarron possa davvero giocarsi le sue carte fino in fondo è chiaro fin dal debutto in Sudafrica, il 25 marzo a Kyalami, quando a vincere è Patrick Fernandenz, altro francese in sella Yamaha, che in condizioni di asfalto bagnato per la pioggia battente che si alterna a momenti di asciutto stacca tutti prima di venir quasi rimontato da Sarron che ha prevalso nella battaglia per il secondo posto sullo spagnolo Sito Pons.

Fernandez non si ripeterà in seguito, tornando nell’anonimato, così come Lavado non è fedele al suo status di campione del mondo in carica, vincendo una sola volta in stagione, ad Assen, per poi chiudere terzo in classifica generale. Ed allora Sarron si trova a dover fare i conti con un cliente forse inatteso a questi livelli, il tedesco Manfred Herweh, che monta Rotax e per almeno le prime quattro gare stagionali non sembra proprio poter competere per le prime posizioni.

Dopo il Sudafrica, infatti, Fausto Ricci vince a Misano con Sarron che si ritira ed Herweh, quarto al debutto, che è solo nono, lasciando intendere che possa essere una stagione aperta a più contendenti. In Spagna, tuttavia, Sarron è secondo alle spalle di Sito Pons, altro centauro Rotax, che balza al comando della graduatoria generale diventando il pilota di riferimento della classe 250, 25 punti contro i 24 di Sarron.

Il francese è competitivo ed ha modo di dimostrarlo compiutamente vincendo le due gare successive, in Austria dove approfitta di una caduta di Lavado per battere Anton Mang e Pons, e al Nurburgring dove anticipa di un soffio sul traguardo i due beniamini locali Martin Wimmer e Manfred Herweh, a sera trovandosi leader del Mondiale con 54 punti, contro i 35 di Pons e i 31 di Mang.

La strada verso il titolo iridato, ovviamente, è ancora lunga, ma se nel Gran Premio di casa, a Le Castellet, Sarron è solo quinto, distante da Mang che vince e riduce il margine in classifica a 14 punti, ecco che all’orizzonte si profila minacciosa la figura audace di Herweh, che a Fiume domina la concorrenza, stacca nettamente Sarron che chiude in seconda posizione e quando mancano cinque gare al termine della stagione entra a sua volta in lizza per il titolo mondiale, 45 punti contro i 46 di Mang, costretto al ritiro da un problema all’albero motore, e i 72 di Sarron che allunga in classifica.

In effetti, uno dopo l’altro Mang, Pons e Lavado abbandonano ogni velleità di competere per il titolo, ed allora Herweh, che è terzo ad Assen nel giorno in cui Sarron non porta a termine la gara e vince ancora in Belgio, con il francese terzo alle spalle anche di Pons, torna sotto a soli dodici punti dal leader della classifica, che con tre prove ancora da disputare si trova nella necessità di non sbagliare per non veder sfumare quel sogno iridato che culla ormai da tempo. E le emozioni, a Silverstone, in Svezia e al Mugello, non mancano di certo.

In Inghilterra, infatti, Sarron ottiene la terza vittoria stagionale precedendo alla bandiera a scacchi un drappello di piloti uno in coda all’altro ma di cui non fa parte proprio Herweh, che, partito in pole-position, alla penultima curva scivola lasciando via libera al rivale e rotolando a sera a 27 punti di distanza in classifica. E a niente, a questo punto, serve la vittoria del tedesco ad Anderstorp, che trionferà poi anche all’ultima gara di Scarperia, perché Sarron gli chiude in scia e con i 12 punti del secondo posto si assicura il titolo mondiale della quarto di litro con una prova di anticipo.

Christian Sarron è infine campione del mondo, secondo francese della storia a realizzare l’exlpoit iridato, e se l’impresa altro non è che il passaporto per la classe 500, il centauro che rimase fedele alla Yamaha per tutta la carriera vincerà ancora una volta, ad Hockenheim, settima ed ultima perla di un’avventura in motocicletta da applausi. Andate a leggervi il suo curriculum nella classe regina nei sei anni che verranno… ho forse torto?

IL TITOLO MONDIALE IN CLASSE 250 DEL ROMANO ENRICO LORENZETTI

articolo di Nicola Pucci

Quando Max Biaggi nel 1994 vince il primo dei suoi quattro titoli mondiali in classe 250, diventa solo il secondo romano della storia del motomondiale a salire sul tetto del mondo. perché qualche decennio prima di lui, a far data 1952, l’impresa riuscì ad Enrico Lorenzetti, soprannominato “filaper” (che in lombardo sta per “filaccia“) in virtù del fisico slanciato, alto e magro.

Tocca dunque tornare agli albori del motomondiale, che se è vero che vide la luce solo nel 1949, anticipando di un anno la nascita del Mondiale di Formula 1, regalò la gloria ad un pilota che non era davvero più di primo pelo.

Lorenzetti, infatti, nasce nella Capitale il 4 gennaio 1911, e se è il maggiore di sei fratelli che ben presto rimangono orfani di madre e vengono tirati su del padre tramviere, inizia a coltivare la passione per i motori con le garette di quartiere, trasferendosi poi a Milano con la famiglia, studiando per diventare radiotecnico e debuttando solo nel 1934 in sella ad una Simplex 500. L’anno dopo, visto che la classe non gli manca, dotato com’è di gran tecnica tanto da essere un drago sul bagnato, vince il Circuito di Bergamo, e se nel corso delle stagioni che vengono inizia a farsi un nome, conquistando più di una vittoria ed attirando l’attenzione delle principali case motociclistiche, nel 1939 entra a far parte della grande famiglia della Moto Guzzi. A cui regalerà non poche soddisfazioni, montando il leggendaria Albatros 250.

La Seconda Guerra Mondiale, ovviamente, tarpa le ali a Lorenzetti, non prima aver vinto un primo titolo italiano di secondo categoria, ma quando le ostilità arrivano a termine, il romano è pronto a tornare a correre, diventando ufficialmente un pilota Moto Guzzi nel 1948. E se in patria mette in saccoccia altri cinque titoli italiani, quattro in classe 250 ed uno in classe 500, a cui aggiunge la vittoria nel Campionato Europeo della mezzo di litro nel 1948, ecco che è tempo di eccellere anche nel Motomondiale, ora in sella non più all‘Albatros 250 bensì al Gambalunghino 250, da lui trasformato e collaudato complice un infortunio in strada che aveva demolito la sua moto, modificata poi con alcuni componenti del Gambalunga 500.

E se nel 1949 Bruno Ruffo, proprio con il Gambalunghino 250 diventa il primo campione del mondo della storia della classe 250, bissando il titolo nel 1951, Lorenzetti, che nel 1949 aveva corso nella mezzo di litro giungendo terzo in Belgio, nel 1951 disputa la sua prima gara nella quarto di litro al Tourist Trophy, tracciato che non può che dar risalto alle sue eccellenti doti di guida, terminando terzo alle spalle di Tommy Wood, collega in Moto Guzzi, e Dario Ambrosini, che monta Benelli, per poi vincere l’ultima prova della stagione, il Gran Premio delle Nazioni a Monza dove lo stesso Wood, forse per un ordine di scuderia, lo lascia passare meritandosi, per questo, una squalifica di un anno da parte della Commissione Sportiva, poi ridotta ad otto mesi.

Il quarto posto finale in classifica piloti con 12 punti è solo il preludio di quel che accade nel 1952, quando Lorenzetti fa saltare il banco nella classe 250. Si comincia il 18 maggio, in Svizzera, sul tracciato di Bremgarten, a Berna, che se è già costato la vita in passato ad Achille Varzi, stavolta è fatale al britannico Dave Bennett, che corre in classe 500, e al sidecarista brianzolo Ercole Frigerio. In classe 250 si impone il londinese Fergus Anderson, compagno di squadra di Lorenzetti in Moto Guzzi, che chiude secondo con un distacco di 6″, replicando il risultato al Tourist Trophy, quando il divario è di 32″ con un terzo pilota Moto Guzzi, Syd Lawton, a completare il podio per la Casa di Mondello.

Ad Assen Lorenzetti piazza la prima zampata stagionale, stavolta anticipando Ruffo ed Anderson, e se in Germania proprio Lorenzetti e Ruffo vengono coinvolti in un incidente nel quale il primo si rialza senza danni evidenti mentre per il secondo segna la conclusione anticipata della stagione, nell’Ulster il romano è secondo alle spalle di Maurice Cann, operando così il sorpasso in classifica generale e rimandando la decisione finale per il titolo all’ultima gara, da disputarsi a Monza.

E qui la sfida è davvero all’ultima staccata, con Lorenzetti ed Anderson che per l’occasione se la devono vedere anche con la NSU Rennfox del tedesco Werner Haas, che qualche minuto primo si è imposto nella classe 125. Proprio Haas si catapulta sulla linea d’arrivo affiancato a Lorenzetti, con Anderson terzo ad 1″ di distanza, ed infine solo il fotofinish assegna la vittoria al’italiano, che col primo posto, tenendo Anderson alle sue spalle, si assicura definitivamente il titolo mondiale della classe 250.

Sarà l’unico in carriera, per Enrico Lorenzetti, precursore romano di Max Biaggi in vetta al mondo… ma ha da passarne di acqua sotto i ponti!

LA GRANDE STAGIONE 1973 DI TEPI LANSIVUORI NELL’ANNO DELLA TRAGEDIA DI SAARINEN

articolo di Nicola Pucci

Finlandia e motomondiale, è una meravigliosa storia di campioni e prodezze che si intreccia fin da quando, nel 1970, Jarno Saarinen è il primo centauro del suo paese a salire su un podio iridato, terminando terzo ad Assen in classe 250 in scia a Rodney Gould e Phil Read. E se Martti Pesonen è l’altro finnico che si fa rispettare in classe 350 chiudendo quinto in classifica generale, l’anno dopo lo stesso Saarinen, fuoriclasse a tutto tondo, coglie le prime tre affermazioni mondiali, aggiungendone sette nel 1972 che gli valgono il titolo in classe 250, non prima aver librato un duello all’ultima staccata con Renzo Pasolini.

Corre però l’anno 1973 e l’avventura motociclistica di Jarno, così come la sua esistenza terrena, giungono tragicamente al capolinea in un un drammatico 20 maggio sul circuito di Monza quando Saarinen, carambolando a terra proprio con Pasolini, perde la vita, privando il mondo dei motori non solo della sua indubbia classe di pilota, ma anche della sua travolgente carica umana. E questo nella stagione in cui sale al proscenio un altro finlandese di talento, Teuvo “Tepi” Lansivuori, che disegna un’annata da campione dando spettacolo, ovunque, e sfiorando il titolo mondiale in classe 250 e in classe 350.

In effetti Lansivuori, classe 1945, già da qualche anno si cimenta nel motomondiale, se è vero che dopo gli esordi in patria con le gare su ghiaccio (dove conosce proprio Saarinen di cui diventa grande amico condividendo assieme le lunghe trasferte per gareggiare), motocross e dirt-track, nel 1966 passa alle prove su strada, debuttando l’anno dopo nel principale circuito del motociclismo internazionale.

E se le prime stagioni, spese al soldo dell’Husqvarna e della Yamaha, non sono particolarmente fortunate per il pilota di Iisalmi, che colleziona solo un sesto posto in Jugoslavia nel 1970, ecco che a partire dal 1971, infine in sella ad una moto competitiva, ottiene prima un quarto posto in classe 250 in Svezia, per poi, doppiando l’impegno in classe 350, vincere addirittura all’ultimo appuntamento a Jarama quando, approfittando del ritiro di Phil Read al 17esimo giro, si impone sullo svedese Kurt-Ivan Carlsson e sullo svizzero Werner Pfirter. Così, tanto per far capire al mondo che Saarinen, battuto solo da Giacomo Agostini proprio in classe 350, non è davvero l’unico finlandese capace di saper guidare veloce una motocicletta.

Il 1972, ad onor del vero, non regala successi a Lansivuori, che sale sul secondo gradino del podio ancora in Spagna in classe 250 alle spalle di Pasolini (quinto infine in classifica con 46 punti) ed in Francia in classe 350 battuto dall’amico Saarinen (settimo in graduatoria piloti con 47 punti a fine stagione), ma il bello, almeno per lui, deve ancora venire, e nel 1973 è tempo, davvero, di dare spettacolo.

La Yamaha, infatti, gli affida una moto ufficiale e a tutti gli effetti, ora, Lansivuori diventa compagno di scuderia di Saarinen e del giapponese Hideo Kanaya, magari con l’ambizione di competere con l’amico per la conquista del titolo mondiale, che Jarno ha infine fatto suo nel 1972 in classe 250.

E la sfida tra i due finlandesi, limitatamente alla classe 250 perchè Jarno non corre in classe 350, si accende fin dall’esordio in Francia, con Saarinen che si impone davanti a Kanaya e Pasolini e Lansivuori che termina quinto, per poi proseguire in Austria, quando Saarinen si conferma in più forte del loto battendo Kanaya con Lansivuori quarto, e in Germania, col terzo successo consecutivo di Saarinen che anticipa i due compagni di squadra, nell’ordine Kanaya e Lansivuori.

Tepi, che nel frattempo in classe 350 è salito sul terzo gradino del podio in Francia e in Austria per poi conquistare la seconda vittoria in carriera ad Hockenheim, vorrebbe tanto mettere infine la ruota davanti a quella dell’amico, ma il destino, bastardo, ci mette lo zampino ed il 20 maggio 1973, a Monza, il binomio finlandese si spezza. Nel segno della morte.

Lansivuori, affranto per la perdita del compagno di tante avventure ed esperienze di vita, eredita la Yamaha di Saarinen, e fino al termine della stagione non può che cercare di esser degno erede del grande campione scomparso. In classe 250 il finlandese si trova a battagliare con il tedesco Dieter Braun, altro centauro in casa Yamaha, che infila un poker di successi che gli consentono infine, con 80 punti, di far suo il titolo mondiale, con Tepi che vince in Belgio e sul tracciato di casa di Imatra, sommando anche il terzo posto in Cecoslovacchia, risultati che gli valgono il secondo posto in classifica generale con 64 punti.

In classe 350 Lansivuori soccombe nella sfida con Giacomo Agostini, capace per l’occasione di incamerare il suo 13simo (!!!) titolo iridato con quattro vittorie totali ed 84 punti complessivi, sufficienti a far meglio del pilota della Yamaha che da parte sua può contare su tre successi, tre terzi posti e la piazza d’onore a Monza poche minuti prima del tragico schianto che costa la vita, appunto, a Pasolini e Saarinen. A fine campionato Tepi somma 77 punti, per un altro secondo posto che se non conforta le sue ambizioni di vittoria, almeno lo eleggono campione assoluto.

Al calar della stagione 1973, dunque, Tepi Lansivuori, che negli anni a seguire salirà di cilindrata, cimentandosi ancora con ottimi risultati in classe 500 (secondo in classifica nel 1976 alle spalle di Barry Sheene), può ragionevolmente archiviarla come l’annata migliore della sua carriera di motociclista d’alto livello. Ma il costo, ahimé, è stato davvero troppo caro da pagare.

ERIC OLIVER, “IL CORSARO” DEL SIDECAR CHE FU QUATTRO VOLTE CAMPIONE DEL MONDO

articolo di Nicola Pucci

Eric Oliver di mestiere faceva il meccanico, ma non aveva davvero voglia di rimanere per sempre in bottega ad accomodare motociclette quando gli altri correvano. E fu così, intuendo forse che la sua strada era quella delle competizioni, che senza trovare opposizione alcuna iniziò a sua volta a gareggiare, in questo supportato proprio dalla famiglia che lo incitò in tal senso, prendendo addirittura a seguirlo lungo tutto l’arco delle sua carriera.

Già, perché stiamo parlando di un centauro che ha scritto pagine memorabili di grande motociclismo, optando per i sidecar di cui viene considerato tra gli interpreti più forti e vincenti di sempre. E questo perché, oltre ad avere la forza di correre sempre per se stesso, tanto da meritarsi l’appellativo di “corsaro“, applicò con dedizione e scrupolo il principio di non lasciare niente al caso, non solo nella preparazione maniacale del mezzo meccanico ma anche nell’allenamento scientifico del fisico e della mente.

Inglese di Crowborough, nel Sussex, classe 1911, Oliver riesce a distinguersi con una motocicletta a tre ruote, diventando un campione spericolato, tanto abile da eseguire con assoluta naturalezza traiettorie vietate a chiunque altro. E se il debutto, al Tourist Trophy del 1937, lo convince che il sidecar può essere l’opportunità d’affermazione, solo nel secondo dopoguerra, dopo aver esercitato come ingegnere di volo sui bombardieri Lancaster durante il conflitto bellico, può sviluppare in pieno l’attività agonistica, diventando il fulcro del Campionato del Mondo che vede la luce nel 1949.

A quell’epoca Oliver ha già 38 anni, ma l’età non pesa di certo sulle spalle di un uomo maturo, completamente dedito al raggiugimento del massimo risultato. E quando il carrozzone iridato si mette in marcia, ecco che l’inglese, che ha corso per anni anche da singolo senza ottenere grandi risultati, monta su un sidecar Norton-Watsonian, assieme a Denis Jenkinson, giornalista noto per la folta barba rossa e compagno di Stirling Moss in una vittoriosa Mille Miglia, debuttando sul circuito svizzero di Bremgarten dove si impone lasciando a quasi 50″ Ercole Frigerio, monzese di Albiate che guida Gilera e si accoppia con quel Lorenzo Dobelli che nei due anni successivi sarà proprio accanto ad Oliver. Che nel frattempo vince anche in Belgio e già può fregiarsi del titolo mondiale, visto che la stagione prevede solo un’altra gara, a Monza, vinta proprio da Frigerio e Dobelli.

Il duello con Frigerio si rinnova anche nel 1950, e se stavolta Oliver, che ha al suo fianco, appunto, Dobelli, sostituito in Gilera da Ezio Ricotti, vince tutte e tre le prove previste dal calendario, ecco che nel 1951, quando il calendario viene allungato di altre due gare, in Spagna e Francia, deve davvero mostrare il meglio del suo repertorio di pilota senza fronzoli, inventore della posizione “semi-inginocchiata“, per avere la meglio, imponendosi proprio in Spagna, in Francia e in Belgio, il che gli consente di sommare 30 punti contro i 26 di Frigerio, costretto al ritiro nell’ultima, decisiva prova di Monza.

Dopo tre titoli iridati vinti nelle prime tre stagioni, Oliver e Dobelli sarebbero i logici favoriti per un poker clamoroso nel 1952, ma prima dell’inizio della stagione i due campioni del mondo sono vittime di un grave incidente in cui entrambi riportano la frattura di una gamba, saltando il debutto in Svizzera, segnato dal drammatico schianto alla curva Eymatt, quella già costata la vita in passato ad Omobono Tenni e ad Achille Varzi, che provoca la morte di Frigerio. Al rientro, il 6 luglio in Belgio, pur con la gamba ingessata, Oliver non ha al suo fianco l’italiano, ancora in stampelle, sostituito da Stanley Price, ma riesce a vincere, bissando poi all’ultima prova in Spagna. Tuttavia, il ritiro in Germania e non essersi presentato a Monza impediscono al britannico di difendere il titolo, che premia a fine anno Cyril Smith, al cui fianco si alternano Bob Clements e Les Nutt, che negli anni a seguire terrà compagnia allo stesso Oliver.

Che nel 1953, affiancato da Stanley Dibben, torna ad essere il fuoriclasse che nessuno può battere, soprattutto in quella conduzione di curva spezzata in tre segmenti rettilinei, e che con quattro successi in cinque gare si impadronisce nuovamente del titolo iridato.

Che poi è anche l’ultimo, perché se nel 1954 Oliver, dopo aver vinto, assieme a Les Nutt, le prime tre gare stagionali al Tourist Trophy, nell’Ulster e in Belgio, complice un altro incidente in una corsa minore lascia via libera alla BMW di Wilhelm Noll che pareva decisamente meno performante della sua Norton, l’anno successivo, 1955, dopo aver ottenuto un terzo posto in Spagna ed essersi ritirato al Tourist Trophy, preso atto anche della superiorità delle BMW, annuncia il ritiro dalle competizioni.

Quattro titoli mondiali possono bastare per eleggere Eric Oliver quale sidecarista più forte di sempre? Probabilmente sì… anche se la vertenza è ancora aperta. E magari qualche altro campionissimo avanza la propria candidatura.