GOSTA PETTERSSON, UNO SVEDESE SUL TETTO DEL GIRO D’ITALIA 1971

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Gosta Pettersson in maglia rosa – da prendas.co.uk

articolo di Nicola Pucci

Certo che un ciclista svedese capace non solo di andar forte in bicicletta, ma pure di vincere una corsa tra le più prestigiose al mondo e di farlo in piena era di “cannibalismo“, è proprio una gran bella storia da raccontare.

In effetti Gosta Pettersson ha nel dna il talento per pestare come un forsennato sui pedali, a dispetto di una provenienza che lascerebbe pensare, magari, ad un orientamento verso altre discipline che a quelle latitudini hanno maggior appeal. Ma Gosta, classe 1940, ha un sogno a due ruote da perseguire, ed insieme ai tre fratelli più piccoli di lui, Sture, Erik e Tomas, compone un quartetto che nel corso degli anni Sessanta non solo domina il panorama nazionale con titoli a cronometro in serie, ma pure eccelle in sede iridata, cogliendo tre successi consecutivi alle rassegne mondiali di Heerlen 1967, battendo Danimarca ed Italia, Imola 1968, davanti a Svizzera ed ancora Italia, e Zolder 1969, quando ad inchinarsi sono Danimarca e Svizzera.

Nel frattempo, a far data 1964, i “Faglum brotherssalgono anche sul  terzo gradino del podio olimpico ai Giochi di Tokyo, quando a superarli sono il quartetto olandese e quello azzurro che ha in Severino Andreoli, Luciano Dalla Bona, Pietro Guerra e Ferruccio Manza i suoi componenti, per poi rinnovare l’appuntamento a cinque cerchi quattro anni dopo, a Città del Messico, quando i Pettersson sono ancora secondi nell’esecizio della 100 chilometri a squadre, sempre alle spalle degli olandesi, e Gosta si toglie la soddisfazione di mettersi al collo anche la medaglia di bronzo nella gara individuale che celebra il trionfo di Pierfranco Vianelli davanti ad un altro scandinavo forte e scaltro, il danese Leif Mortensen.

I Pettersson in generale e Gosta nello specifico hanno altresì l’Italia nel destino, non solo sui tracciati pedalabili in ogni spicchio di globo terrestre, ma anche nello sviluppo di una carriera professionistica se è vero che nel 1969 un certo Alfredo Martini, al soldo della Ferretti, un’azienda toscana che produce cucine, con pochi denari ed occhio attento ai ciclisti dilettanti che vengono da paesi con poca tradizione, mette in piedi una formazione che fa perno proprio sui quattro fratelli svedesi.

Gosta ha quasi 29 anni ed al primo anno non solo conquista l’ennesimo titolo nazionale a cronometro a cui aggiungere quello in linea, ma pure si mette particolarmente in luce al Tour de l’Avenir, una sorta di Tour de France per chi ancora deve scegliere la strada del professionismo, vincendo il prologo d’apertura e chiudendo terzo in classifica generale alle spalle di Joop Zoetemelk, che sarà un crack tra i “grandi“, e dello spagnolo Luis Zubero.

Il più grande dei fratelli Pettersson, ovviamente, è fortissimo a cronometro, si difende in salita ed è praticamente fermo in volata, il che gli negherà a fine carriera un bottino congruo di successi, a conforto di un talento fuori discussione. E Martini, che in quanto a campioni ne sa una più del diavolo, nel 1970 lo lancia, lui e i fratelli, nel firmamento del ciclismo professionistico, puntando su Gosta per le principali corse a tappe.

Ed in effetti lo svedese, alle soglie dei 30 anni, ripaga la fiducia del tecnico fiorentino, vincendo al primo anno non solo Coppa Sabatini, davanti a Sercu, e Trofeo Baracchi, in coppia con il fratello Tomas, battendo Ritter e Mortensen, ma si prende il lusso di essere il più forte di tutti sulle strade del Giro di Romandia, vincendo la cronometro di Losanna e lasciando i due più diretti inseguitori, Davide Boiafava e lo stesso Zoetemelk, a distanza di sicurezza.

Con il successo in Svizzera Pettersson si garantisce i gradi di capitano della Ferretti sia al Giro d’Italia, chiuso in sesta posizione a 9’20” da Merckx, che al Tour de France, dove coglie un sorprendente terzo posto alle spalle dell’imbattibile Merckx, che lo sopravanza di 15’54”, e dell’immancabile Zoetemelk, che per l’occasione ottiene la prima di sei piazze d’onore alla Grande Boucle.

Gosta diventa di colpo un corridore da tenere d’occhio, e per il 1971, stagione annunciata da un terzo posto alla Milano-Sanremo, battuto solo da Merckx e Gimondi, e dal secondo posto alla Parigi-Nizza alle spalle, ovviamente, di Merckx che lo anticipa di 58″, lo svedese ha in serbo il colpaccio al Giro d’Italia.

L’edizione numero 54 della Corsa Rosa si disputa dal 20 maggio al 10 giugno e se l’assenza di Merckx veste Felice Gimondi e Gianni Motta, campioni della Salvarani, del ruolo di favoriti, Gosta se ne sta inizialmente alla finestra a vedere quel che accade. E di cose, in un Giro d’Italia assolutamente folle, ne succedono, tante, dopo una prima tappa a cronometro che per la prima ed unica volta della storia veste a sera con le insegne del primato tutti e dieci i corridori proprio della Salvarani.

Ma il destino, brutale, incombe sui due capitani della Salvarani, con Gimondi che va in crisi nella tappa di Potenza incendiata da Dancelli e vinta da Enrico Paolini, perdendo quasi nove minuti, e con Motta che viene trovato positivo ad un controllo doping meritandosi dieci minuti di penalizzazione ed uscendo, entrambi, di fatto, dai giochi per la vittoria finale.

Lo scenario si apre ad orizzonti inattesi, e chi ha voglia di approfittare della mancanza di campioni di riferimento, si faccia avanti. Ed allora ci prova lo stesso Paolini, che se in futuro mostrerà di avere una particolare propensione alla maglia tricolore, nel frattempo tiene, per tre giorni, quella rosa; Ugo Colombo, che spodesta il pesarese sul Gran Sasso d’Italia che mette le ali allo spagnolo Lopez Carrill e, momentanemante, ricaccia indietro le illusioni di Pettersson; Aldo Moser, che a San Vincenzo, nel giorno del parziale riscatto di Gimondi, torna a capeggiare la classifica come già fu capace di fare nell’ormai lontano 1958; Claudio Michelotto, trentino pure lui, che si impossessa della rosa a Casciana Terme e la tiene ben salda sulle sue spalle di corridore tenace per le successive nove tappe.

Nel mezzo c’è spazio per i cacciatori di traguardi parziali, siano essi José Manuel Fuente, magnifico scalatore che si impone a Pian del Falco di Sestola, Patrick Sercu e Marino Basso, tanto veloci di spartirsi due volate a testa dopo che il vicentino a Bari, al secondo giorno, aveva vinto la prima tappa in linea, Davide Boifava, abile a battere tutti nella cronometro di Semiga di Salò, e proprio Pierfranco Vianelli, che sul Grossglockner grida al mondo che il successo olimpico di Città del Messico non fu solo l’isolato sprazzo di un giorno di gloria.

Zitto zitto, senza eccessi ma neppure senza troppi inciampi, Pettersson si è rifatto sotto, recuperando a Michelotto 1’43” nella cronometro e 2’35” proprio sul Grossglockner, complice un minuto supplementare di penalizzazione inflitto al leader per spinte, risalendo in terza posizione con un ritardo di 2’02”, dietro anche ad Aldo Moser che resiste con un passivo di 1’22”. Ma l’8 giugno, nella Lienz-Falcade di 195 chilometri e con le ascese, impervie, del Passo Tre Croci, del Falzarego, della “Cima Coppi” posta sul Pordoi, e del Valles, la corsa giunge alla resa dei conti. Gimondi attacca sul Pordoi provocando il crollo di Michelotto che rimbalza ad oltre dieci minuti, e portandosi a ruota Van Springel, capitano della Molteni orfana di Merckx ed infine secondo in classifica generale con un ritardo di 2’04”, Galdos, in maglia Kas, quarto a 4’27” alle spalle anche di Colombo che salirà sul terzo gradino del podio attardato di 2’35”, e lo stesso Pettersson, che si impossessa della maglia rosa.

Il giorno dopo, verso Ponte di Legno, lo svedese concede qualche secondo ed è fatto oggetto dei fischi ingenerosi e dell’incivile lancio di uova marce che “sporcano” quella meravigliosa maglia rosa che sarà definitivamente sua, 24 ore dopo, nella conclusiva cronometro di Milano vinta da Ole Ritter.

E così, lo svedese che scelse la bicicletta quale mezzo per andare più veloce di tutti, corona il suo sogno, e se oggi, a distanza di decenni, il suo nome è anche l’unico di matrice scandinava ad aver domato il Giro d’Italia… beh, vi sembra impresa da poco?

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