KARIN BUDER, UNO SLALOM D’ORO NEL GRIGIO DEI MONDIALI DI MORIOKA 1993

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Karin Buder sul gradino più alto del podio a Morioka 1993 – da youtube.com

articolo di Nicola Pucci

Se qualche appassionato di sci ricorda con una certa punta di insoddisfazione mista a malumore i Mondiali di Morioka del 1993, ne ha ben donde. L’edizione che passò alla storia come uno dei rari appuntamenti di prestigio bucati da Alberto Tomba, così come per la prima esibizione d’oro della premiata ditta norvegese Aamodt/Kjus, nondimeno regalò una finestra sulla gloria (effimera) ad atleti poi destinati a rientrare nei ranghi. Ad esempio l’elvetico Urs Lehmann, che battè tutti in discesa libera senza esser prima e dopo mai salito sul podio in Coppa del Mondo, e l’asburgica Karin Buder, che in slalom si prese il lusso di trionfare davanti a colleghe dal palmares ben più illustre del suo.

Austriaca di Sankt Gallen, classe 1964, la Buder calza i suoi primi sci alla tenera età di quattro anni e ben presto denuncia abilità non comune, tanto da venir selezionata per i Mondiali juniores di Auron del 1982 dove è 11esima in gigante. Ma non è tra le porte larghe che esprime appieno l’indubbio talento, fors’anche penalizzata da una conduzione non ottimale delle curve veloci, bensì tra le maglie strette e tortuose dello slalom che per un decennio almeno la vedranno se non attrice di primo livello, senza dubbio comprimaria di lusso sì. Ed è con un decimo posto a Davos nel gennaio del 1983 che Karin per la prima volta si affaccia nella top-ten, cosa che le riuscirà in altre ventotto occasioni, tutte inderogabilmente in slalom.

Le prime stagioni in Coppa del Mondo, ad onor del vero, sono avare di soddisfazioni per questa ragazza dal fisico longilineo, abilissima nei tratti filanti di puro scorrimento ma già meno performante quando si tratta di aggirare l’ostacolo. Ma con l’introduzione del palo snodabile, le cose cambiano, e a far data stagione 1986/1987 la Buder infila una serie di buoni piazzamenti che le valgono infine il primo gruppo di merito, non prima però di aver vinto l’anno prima classifica generale e di slalom in Coppa Europa. E’ quarta a Park City il 30 novembre e qualche giorno dopo, a Waterville Valley, sale per la prima volta in carriera sul podio, terza alle spalle di Erika Hess e Brigitte Oertli.

Sono in effetti gli anni in cui sul Circo Bianco soffia dominatore il vento del ciclone svizzero, che fa incetta di trofei in ogni disciplina, con lo slalom che tra il 1989 e il 1995 (ad eccezione della stagione 1991 che ha in Petra Kronberger la regina indiscussa) soccombe alla legge della slalomista più forte, Vreni Schneider. E Karin, al pari delle colleghe, raccoglie men delle briciole.

Ma la fortuna, si sa, aiuta chi ha voglia di osare, e se l’11 marzo 1990 in Norvegia, a Stranda, la Buder vince la sua prima ed unica gara di Coppa del Mondo in un podio interamente austriaco completato da Claudia Strobl, seconda per soli 0″06, e Anita Wachter, terza con un passivo di 0″91, sulle nevi giapponesi di Morioka, rese infide per un’edizione iridata mai così funestata dal maltempo, Karin va a conquistarsi il suo piccolo spazio nella storia dello sci alpino al femminile.

Ormai 29enne, nel pieno della maturità e già quarta ai Mondiali di Crans Montana del 1987 quando fu la talentuosissima yugoslavia Mateja Svet a negarle la medaglia di bronzo, oltreché quinta anche alle Olimpiadi Albertville nel 1992 dopo una furiosa rimonta dall’11esimo posto della prima manche, la Buder si presenta all’appuntamento iridato al culmine di un’annata che l’ha vista salire sul terzo gradino del podio a Cortina (quinto ed ultimo della serie) battuta dalla Schneider e dalla neozelandese Annelise Coberger, oltre ad ottenere un quarto posto ad Haus in Ennstal ed un quinto a Park City. Insomma, non è lei la favorita alla vittoria, ma palesa buona forma e costanza di rendimento, e gli addetti ai lavori la includono nell’ampio ventaglio delle slalomiste che puntano ad una medaglia (tra queste anche le due azzurre Deborah Compagnoni e Morena Gallizio, che sono salite entrambe sul terzo gradino del podio).

La Schneider è chiamata a confermare il titolo conquistato due anni prima a Saalbach (dove la Buder invece uscì di scena nella prima manche), con Patricia Chauvet e Julie Parisien, le altre vincitrici in stagione, e la stessa Coberger, eterna piazzata, quali più serie candidate al ruolo di sfidante della grande elvetica. La Buder, dal canto suo, che ha già annunciato che lascerà l’attività a fine stagione, coltiva l’illusione di chiudere in bellezza una carriera comunque più che dignitosa… ed il cronometro sta per darle ragione.

Il 9 febbraio la “Kotakakura” di Morioka è teatro di una sfida che vede allinearsi al via 52 atlete. Karin, forse complice il grigio del cielo che nasconde i tranelli del tracciato, scende a valle con il pettorale numero 4, ma pare avere il freno a mano tirato tanto da far segnare solo il settimo tempo parziale. Ma nella seconda manche, senza più nulla da perdere, la sua serpentina è ficcante, esente da sbavature, ed infine al traguardo fa meglio della svedese Titti Rodling, provvisoriamente al comando, fissando il tempo di 1’27″66. Le avversarie sentono sul collo il fiato della ragazza asburgica, che ha posto la sbarra molto in alto, ed una dopo l’altra falliscono l’appuntamento con la vittoria, lasciando sulla neve i sogni (Schneider, Coberger che era in testa al termine della prima manche, e Compagnoni) o pagando dazio al cronometro (Chauvet, solo settima, Parisien a 0″21 e l’altra austriaca di rango, Elfie Eder a 0″99, che accompagnano la Buder sul podio).

Finisce così, con Karin Buder che proprio all’ultimo tuffo si mette al collo una medaglia inseguita da sempre e che vale una carriera intera. Basta poco per entrare negli albi d’oro che contano, vero?

 

 

 

TOUR DE FRANCE 1910, L’ANNO DELLA PRIMA VOLTA DEL TOURMALET

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Octave Lapize sul Tourmalet – da it.wikipedia.org

articolo tratto da Allez operazione-ciclismo

A volte bisogna essere un po’ folli per guardare oltre la normalità e pensare cose che agli altri non verrebbero neanche in mente. Ci vuole un pizzico di follia per creare qualcosa di incredibile apparentemente oltre le possibilità umane; gli organizzatori del Tour de France del 1910 in realtà dovevano avere molto più che un pizzico di follia perché solo pensare che un ciclista, sulle strade di allora e con i mezzi di allora, potesse scalare una vetta pirenaica era un’idea folle, figuriamoci far passare la corsa ciclistica più famosa del mondo su Peyresurde, Aspin, Tourmalet e Aubisque; quella era un’idea da assassini.

Vous etes des assassins! Oui, des assassins“.

Queste sono le parole che Octave Lapize rivolse agli organizzatori del Tour de France, c’è chi dice in vetta al Tourmalet, chi sull’Aubisque e chi sul traguardo, ma poco importa. Queste parole sono rimate scolpite nella storia del ciclismo ed ogni volta che il Tour transita sui Pirenei vengono ricordate perché sono le uniche che possono rendere un’idea, seppur pallida, della fatica alla quale furono costretti i ciclisti.

Il Tour de France del 1910 partì già carico di polemiche: Adolphe Steinès, storico disegnatore del percorso della corsa aveva annunciato di voler far transitare i ciclisti sui Pirenei, l’idea sembrava folle e persino il direttore e fondatore del Tour Henri Desgrange, uno che poteva vantarsi di alcuni soprannomi come “massacratore di atleti” e “aguzzino di forzati“, era recalcitrante all’idea. Dopo molte insistenze però si arrivò ad un accordo, la corsa sarebbe passata su quelle montagne solo a patto che Steinès si fosse recato in loco per verificare personalmente la fattibilità del progetto. E qui la storia si mischia con la leggenda. Infatti si narra che lo stesso Steinès si recò sul Tourmalet nel mese di gennaio e nei pressi dell’inizio della salita si fermò in un’osteria dove alla richiesta di informazioni per la vetta ricevette una risposta sprezzante: “Il Tourmalet è a malapena transitabile in estate, figuriamoci in inverno“. Ma Steinès oramai aveva in mente un solo obiettivo e non intendeva scoraggiarsi, così si inerpicò con un’auto per la strada pietrosa che saliva verso la vetta del monte; a pochi chilometri dalla vetta la neve non permetteva più all’auto di procedere così che egli dovette continuare a piedi, ma la luce andava scomparendo e nel buio della sera l’incauto uomo si perse sulla montagna cadendo in un burrone. Venne ritrovato la notte stessa da una squadra di soccorso che lo rifocillò e lo rimise in sesto, in maniera da permettergli di recarsi il giorno successivo al più vicino ufficio postale per inviare il seguente telegramma a Desgrange: “Sono salito sul Tourmalet a piedi. Strada transtabile ai veicoli. Niente neve“.

La decisione era presa contro ogni regola del buonsenso e non appena venne comunicata agli atleti, 26 dei ciclisti che si erano iscritti alla corsa decisero di revocare la propria iscrizione.

La tappa con i Pirenei era la decima di quel Tour ma due giorni prima, durante la nona frazione furonoscalati per la prima volta i colli pirenaici, tra questi il Portet d’Aspet, sicuramente meno impegnativi di quelle che attendevano i partecipanti. Non erano i Pirenei ma erano abbastanza da creare così tanti problemi e sofferenze agli atleti da indurre Desgrange a lasciare il Tour per non guardare quello che stava per arrivare. Il 21 luglio, giorno della fatidica tappa da Luchon a Bayonne, Peyresurde e l’Aspin furono affrontati con relativa calma e con il timore del Tourmalet che sarebbe stato il punto più alto mai raggiunto da una corsa ciclistica fino ad allora. Lapize vi transitò per primo seguito da Gustave Garrigou che fu l’unico a riuscire nell’impresa di non metter mai piede a terra. L’ultima salita da affrontare fu l’Aubisque dove lo sconosciuto Francois Lafourcade riuscì a valicare proprio davanti a Lapize che forse proprio in questa occasione urlò la celebre frase alla macchina degli organizzatori che lo aspettava in vetta; pare che il giovane pensò anche di ritirarsi dalla gara ma cambiò idea durante la discesa andando a recuperare il corridore che lo precedeva ed arrivando al traguardo dopo 289km di gara con 18’ sul secondo classificato andando a conquistare una vittoria che poi gli risultò preziosa per la vittoria finale di quel Tour.

Quella edizione del Tour rimase storica perché aprì la strada alle corse a tappe come le conosciamo oggi, aprì la strada alle grandi salite, quel Tour entrò nella storia anche grazie ad Octave Lapize che diventò celebre non tanto per la vittoria finale quanto per quelle parole che oggi tutti ricordano. Il giovane francese vinse quell’anno il suo primo e unico Tour de France che va ad aggiungersi nella sua carriera alle tre Paris – Roubaix consecutive ottenute tra il 1909 e il 1911; la sua carriera fu poi interrotta bruscamente nel 1914 dalla guerra durante la quale Lapize trovò una tragica morte ma di lui ci rimangono le imprese e quelle parole che ci fanno pensare alla fatica e alla sofferenza patita da quei pionieri che ora però, grazie anche a queste testimonianze, sono paragonabili ad eroi del ciclismo.

I FAVOLOSI ANNI ’50 DELLO STADE DE REIMS, GLORIA DEL CALCIO FRANCESE

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I giocatori del Reims celebrano uno dei tanti trionfi degli anni ’50 – da stade-de-reims.com

articolo di Giovanni Manenti

Se il primo “Periodo d’orodella Nazionale francese di Calcio a cavallo degli anni ’80 – onorevoli sconfitte con Italia ed Argentina ai Mondiali ’78, quarto posto nell’edizione di Spagna ’82 e terzo nella successiva di Messico ’86, intervallati dal titolo continentale conquistato agli Europei ’84 – era figlio dei buoni risultati ottenuti a livello europeo dalle “tre sorelleSaint-Etienne, Bordeaux ed Olympique Marsiglia, il merito dell’estemporaneo podio conquistato 20 anni prima alla rassegna iridata di Svezia ’58 è pressoché unicamente da ascrivere alle imprese compiute durante tale decennio dallo Stade de Reims, che in detto periodo racchiude l’intera sua collezione di successi.

Fondato nel 1931, il Club della città dello champagne ottiene l’ammissione al Campionato di Prima Divisione alla ripresa del medesimo dopo gli eventi bellici della Seconda Guerra Mondiale, in virtù sia del suo buon comportamento durante tale periodo nei vari Tornei non ufficiali che dell’allargamento da 14 a 16 delle formazioni partecipanti, avendo altresì provveduto ad intitolare il proprio Stadio alla memoria di Auguste Delaune, sportivo e politico francese, iscritto al Partito Comunista, torturato ed ucciso dai nazisti nel 1943 a soli 35 anni.

Lo Stade de Reims dimostra comunque sin da subito di meritare tale promozione classificandosi al quinto posto nel ’46 per poi giungere secondo l’anno successivo, a quattro punti di distacco (53 a 49) dal Roubaix Campione e dando luogo ad un arrivo in volata nel Torneo ’48, alla fine appannaggio dell’Olympique Marsiglia con 48 punti, precedendo Lille e Stade de Reims, che concludono a quota 47 e 46 rispettivamente.

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Lo Stade de Reims di fine anni ’40 – da stade-de-reims.com

I tempi sono oramai maturi affinché il Club possa affermarsi all’interno dei confini nazionali e, difatti, le ultime due stagioni che vanno a chiudere la triste decade degli anni ‘40 vedono il Club del Presidente Victor Canard, in carica dall’immediato secondo dopoguerra, centrare il titolo di Campione di Francia nel ’49, che vede il Lille ancora una volta beffato per un punto (48 a 47), allorché i biancorossi allenati da Henri Roessler – che proprio a Reims aveva concluso la propria carriera da giocatore – infilano una serie di 12 vittorie nelle ultime 14 giornate per far loro il primo titolo della propria Storia.

Un titolo al quale l’anno seguente, dopo aver abdicato in Campionato con il terzo posto alle spalle di Bordeaux ed ancora Lille, fa bella coppia la conquista della prestigiosa Coupe de France, vinta superando nella Finale del 14 maggio ’50 allo “Stade de Colombes” il Racing Club de Paris per 2-0, successo maturato nel finale grazie alle reti di Meano all’81’ e di Petittfils 2’ dopo, pur se il protagonista della manifestazione è l’attaccante olandese Bram Appel, alla sua prima stagione a Reims ed autore di ben 11 reti.

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I Capitani Batteux e Lamy prima della finale Reims-Paris del ’50 – da stade-de-reims.com

Il doppio trionfo segna una importante svolta nella guida tecnica della compagine, in quanto a Roessler subentra, nel ruolo di allenatore, il capitano e veterano Albert Batteux che ha appena attaccato le scarpe al chiodo, il quale condurrà la squadra sino alla fine del suo storico ciclo.

Il primo importante contributo che il nuovo tecnico fornisce ai suoi amati colori avviene allorché, nel corso di un incontro amichevole con l’Angers, militante in Seconda Divisione, si accorge delle qualità del 20enne attaccante di origini polacche Raymond Kopa, convincendo il dirigente Henri Germain – che poi assumerà il ruolo di Presidente a partire dal 1953 – a sborsare quanto richiesto dal Club della Loira per assicurarsene le prestazioni.

Investimento che non tarda a dare i suoi frutti, visto che, dopo una prima stagione di ambientamento, che il Reims conclude al quarto posto come nel 1951, l’anno successivo le qualità della guizzante ala destra – a propria volta autore di 13 reti – ed i suoi invitanti assist a centro area sono manna dal cielo per la miglior stagione al Club di Appel, che va a segno in ben 30 occasioni e, soprattutto, regalano ai biancorossi il loro secondo titolo nazionale, grazie ai 48 punti conquistati, con quattro di vantaggio sul Sochaux e, soprattutto, dando dimostrazione di un’impressionante macchina da goal, con le 86 reti realizzate, ad una media di 2,5 a partita.

Tale successo consente altresì allo Stade de Reims di partecipare per la seconda volta – dopo l’edizione del ’49 dove era stato nettamente battuto 0-5 dal Barcellona – alla Coppa Latina, torneo che vede iscritte le vincenti dei Campionati di Italia, Francia, Spagna e Portogallo, e che per l’occasione è organizzato dal paese lusitano.

Abbinato ai Campioni spagnoli del Valencia, lo Stade de Reims ha la meglio per 2-1 per poi affrontare nella Finale disputata il 7 giugno ’53 allo “Estadio da Luz” di Lisbona, il Milan del celebre trio “Gre-No-Li” formato dagli svedesi Gunnar Gren, Gunnar Nordahl e Nils Liedholm ed infliggere ai rossoneri una cocente sconfitta per 3-0 con Kopa sugli scudi in quanto autore di una doppietta, inframezzata da un acuto di Francis Meano.

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Lo Stade de Reims vincitore della Coppa Latina ’53 – da stade-de-reims.com

Oramai una realtà nel panorama calcistico transalpino, lo Stade de Reims “subisce” per una volta, nel 1954, la beffa da parte del Lille che, dopo essere giunto quattro volte secondo dal 1948 al ’51, si aggiudica finalmente il suo secondo Scudetto con un solo punto di vantaggio (47 a 46) sulla coppia formata dalla formazione di Batteux ed il Bordeaux, per poi rifarsi la stagione successiva facendo suo il titolo con 4 punti di vantaggio (44 a 40) sul Sochaux.

E’, quella del 1955, una stagione importante per il Club poiché coincide con l’esplosione dell’attaccante delle Giovanili René Bliard, che si laurea altresì Capocannoniere del Torneo con 30 reti, nonché con l’acquisto dal Le Havre del centrocampista offensivo Michel Hidalgo – futuro Commissario Tecnico della Francia Campione d’Europa nel 1984 – il quale fornisce un importante contributo alla causa andando a segno in 11 occasioni.

Ma, oltre all’importanza del terzo titolo conquistato, l’effetto principale è costituito dal fatto che dalla successiva stagione prende il via la massima competizione continentale per squadre di Club, vale a dire la Coppa dei Campioni, di cui il Reims ha un gustoso antipasto nella partecipazione alla Coppa Latina – che per effetto di tale novità verrà poi abolita nel 1957 – svoltasi proprio in Francia a fine giugno ’55 e che lo vede superare nuovamente il Milan in semifinale per 3-2 con “supplementari ad oltranza” che vedono Leon Glovacki realizzare la rete decisiva addirittura al 138’ (!!) per poi soccombere nella Finale del 26 giugno al “Parc des Princes”, opposto al Real Madrid di Di Stefano e Gento, che si impone grazie ad una doppietta dell’argentino naturalizzato spagnolo Hector Rial.

Rossoneri e “blancos” che sono anch’essi ai nastri di partenza del debutto della neonata manifestazione continentale, per onorare la quale lo Stade de Reims conclude la stagione in patria in un’anonima decima posizione – il punto più basso dell’intero decennio – nonostante il buon apporto della coppi di attaccanti formata da Bliard e Glovacki, con 19 e 12 reti rispettivamente.

Quel che non raccoglie sul suolo nazionale, lo Stade de Reims lo capitalizza a livello europeo, pur in una prima edizione di Coppa Campioni con appena 16 partecipanti ed alcune formazioni a declinare l’invito in favore delle seconde classificate, e comunque un primo saggio delle proprie potenzialità lo fornisce nei Quarti di Finale allorché, dopo aver eliminato dell’Aarhus al primo turno, è opposto all’MTK Budapest che, ancorché partecipante in luogo della più celebre Honved Budapest, annovera pur sempre nelle sue file tre vice Campioni del Mondo quali Peter Palotas, Mihaly Lantos e Nandor Hidegkuti.

La gara d’andata, disputata il 14 dicembre ’55 al “Parc des Princes” davanti ad oltre 36mila spettatori vede l’attacco biancorosso esprimersi al meglio, orchestrato da un Kopa in forma smagliante che manda quattro volte a segno i suoi compagni (doppietta di Leblond ed acuti di Glovacki e Bliard) per il 4-2 conclusivo, difeso al ritorno due settimane dopo a Budapest con una prova di forza ancora superiore, visto che il primo tempo si conclude con il Reims in vantaggio per 3-1 (Glovacki e doppietta di Bliard), poi incrementato ad inizio ripresa da Templin, prima di concedere una inutile rimonta ai padroni di casa sino al 4-4 definitivo che apre ai francesi le porte della semifinale.

Un piccolo aiuto viene loro offerto dalla buona sorte, visto l’accoppiamento con gli scozzesi dell’Hibernian di Edimburgo, superati grazie a due vittorie (2-0 a Parigi ed 1-0 in Scozia), nel mentre Milan e Real Madrid – a dimostrazione, peraltro, della valenza della Coppa Latina a quell’epoca – si scannano tra di loro, coi rossoneri a resistere al Santiago Bernabeu sino al 2-2 della mezz’ora prima di cedere 2-4, non risultando sufficiente il 2-1 del ritorno a San Siro per ribaltare l’esito della sfida.

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Lo Stade de Reims finalista di Coppa Campioni ’56 – da stade-de-reims.com

Con il vantaggio di disputare la prima Finale della Coppa dei Campioni a Parigi, il 13 giugno ’56 va in scena al “Parc des Princes” la ripetizione della Finale della Coppa Latina dell’anno precedente, in cui l’undici di Batteux gioca sul fattore sorpresa, partendo subito all’attacco tanto da trovarsi sul 2-0 dopo appena 10’ di gioco, grazie alle reti di Leblond e Templin, prima che i madrileni riordinassero le idee e riescano a chiudere il primo tempo in parità grazie ai centri di Di Stefano e Rial.

Per molti dei presenti, la gara è oramai incanalata in favore delle “merengues”, tanto che ci si attende una loro facile supremazia nella ripresa, ma così non è in quanto poco dopo l’ora di gioco tocca ad Hidalgo portare ancora avanti i Campioni di Francia, gioia peraltro di poca durata, poiché appena 5’ è Marquitos a riequilibrare le sorti dell’incontro prima che sia ancora Rial ad 11’ dal termine a siglare il punto del definitivo 4-3 che consegna al Real Madrid la prima delle sue cinque Coppe consecutive e rende comunque onore al Reims ed al Calcio francese nel suo complesso.

Real al quale non è comunque sfuggita la classe e le qualità di Raymond Kopa, e già all’epoca era praticamente impossibile rifiutare un’offerta che giungesse da tali latitudini, sia per i Dirigenti del Club – che difatti incassano la non trascurabile somma di 52milioni di vecchi franchi – che per lo stesso giocatore, che vede decuplicato il proprio ingaggio.

E se per la guizzante ala destra il triennio vissuto a Madrid è quello della definitiva consacrazione – con la conquista di tre Coppe dei campioni, nonché del “Pallone d’Oro” 1958 – non si può certo dire che il Presidente Germain abbia investito male quanto ricavato dalla sua cessione, visto che ciò consente l’arrivo al Club degli attaccanti Jean Vincent e Just Fontaine, provenienti rispettivamente da Lille e Nizza nell’estate ’56, nonché, l’anno successivo, di Roger Piantoni, acquistato dal Nancy.

Quello composto da Bliard, Fontaine, Piantoni e Vincent è in assoluto uno dei più forti attacchi della storia non solo del Club, per quanto ovvio, ma dell’intero Calcio francese e, dopo il terzo posto in Campionato, una lampante dimostrazione la si ha nella successiva stagione ’58, che vede lo Stade de Reims dominatore assoluto abbinando al quarto titolo nazionale – vinto con 7 punti di margine (48 a 41) sul Nimes e ben 89 reti realizzate, con Fontaine Capocannoniere con 34 centri, degnamente affiancato da Piantoni e Bliard che chiudono a quota 17 e 15 rispettivamente – anche la Coupe de France, conquistata superando nella Finale del 18 maggio ’58 lo stesso Nimes per 3-1, grazie ad una doppietta di Bliard ed al solito sigillo di Fontaine.

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Lo Stade de Reims del “double” nel 1958 – da stade-de-reims.com

Il 1958 è anche l’anno dei Campionati Mondiali, la cui organizzazione è affidata alla Svezia, mentre alla guida dei “Bleus” è chiamato lo stesso Albert Batteux, allenatore del Reims, il quale attinge a piene mani dai “suoi ragazzi”, convocando per la rassegna iridata il portiere Dominique Colonna (anche se poi gli preferisce quale titolare nel ruolo Claude Abbes del Saint-Étienne …), il regista difensivo, nonché capitano Robert Jonquet, il centrocampista Armand Penverne ed il trio d’attacco composto da Fontaine, Piantoni e Vincent, cui può, coi colori della Nazionale, affiancare il madridista Kopa, con Bliard l’unico ad essere sacrificato in favore della 21enne ala del Lens, Maryan Wisnieski.

Il cosiddetto “Calcio champagne” di marca transalpina trova la sua massima rappresentazione proprio ai Mondiali svedesi, dandone prova lampante sin dall’esordio contro il Paraguay, schiantato per 7-3 con un tabellino dei marcatori in cui vanno a segno tutti e cinque gli attaccanti, pur se Fontaine si fa preferire con una tripletta, cui fa seguire una doppietta nel match perso 2-3 con la Jugoslavia ed una sesta rete nel 2-1 rifilato alla Scozia che vale l’accesso ai Quarti di Finale.

Con già il miglior attacco del Torneo grazie alle 11 reti messe a segno nel Girone eliminatorio, la Francia si conferma nel primo turno ad eliminazione diretta con il 4-0 (doppietta di Fontaine, acuti di Wisnieski e Piantoni) rifilato all’Irlanda del Nord che le schiude l’accesso alla semifinale contro il Brasile, dove resta in partita sino all’intervallo, chiuso sull’1-2 (ancora Fontaine a segno) prima di dover fare i conti con un non ancora 18enne Pelè che le rifila una tripletta in poco più di 20’, con la sola rete allo scadere di Wisniski ad “addolcire” la pillola del 2-5 conclusivo.

Tale exploit della futura “Perla nera” a parte, a livello europeo la Francia si dimostra la migliore, come testimonia il devastante 6-3 con cui si aggiudica la Finale per il terzo posto a spese dei campioni del Mondo in carica della Germania Ovest, consentendo a Fontaine, autore di uno straordinario poker, di portare a termine la sua missione con 13 reti all’attivo, record tutt’ora insuperato, mentre occorreranno 28 anni prima che un’altra Nazionale francese ottenga un analogo piazzamento, nell’edizione di Messico ’86.

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Just Fontaine celebrato a fine Mondiali ’58 – da talksport.com

Con 17 delle 23 reti realizzate al Mondiale di “marca Stade de Reims” (cui si potrebbero aggiungere i 3 centri di Kopa …), la formazione francese si allinea ai nastri di partenza della quarta edizione della Coppa dei Campioni in veste di seria pretendente a cercare di ostacolare il dominio madridista, che ha fatto suo per tre volte consecutive il Trofeo, e le premesse sono soddisfacenti, visto che al primo turno i malcapitati nordirlandesi dell’Ards vengono schiantati da un 4-1 esterno di sola marca Fontaine, cui segue il 6-2 tra le mura amiche, con le reti equamente distribuite, due a testa, tra Bliard, Fontaine e Piantoni.

Anche il secondo turno è poco più che una formalità, visto l’abbinamento con i modesti finlandesi dell’HPS Helsinki, le cui sfide, oltretutto, si disputano entrambe in Francia a causa del clima e tocca stavolta a Vincent fare, per una volta, da protagonista, con la sua personale tripletta nel 4-0 dell’andata, mentre Fontaine mette la sua firma con una doppietta nella gara di ritorno.

Alla ripresa del Torneo a marzo ’59, lo Stade de Reims è chiamato ad impegni ben più ardui, nonché a compiere una vera e propria impresa nei Quarti allorché, abbinato ai belgi dello Standard Liegi, subisce una sconfitta per 0-2 all’andata difficile da rimontare, tanto più che al ritorno, chiuso il primo tempo a reti inviolate, Piantoni si vede ribattere dal portiere belga Nicolay un calcio di rigore al 10’ della ripresa.

Con poco più di 20’ a disposizione per ribaltare l’esito del doppio incontro, è lo stesso Piantoni a riscattarsi con la rete del vantaggio, prima che tocchi al solito Fontaine il compito di “salvatore della patria” con una doppietta, di cui la seconda rete messa a segno all’88’, che regala ai biancorossi l’accesso alle semifinali (ed al 26enne attaccante la corona di Miglior Marcatore della Manifestazione con 10 reti all’attivo …), dove, come tre anni prima, la buona sorte strizza loro l’occhiolino, con un abbinamento non certo irresistibile con gli svizzeri dello Young Boys Berna, mentre nell’altra sfida va in scena il “derby fratricida” tra Real ed Atletico Madrid.

E così, mentre ai detentori del Trofeo è necessaria una gara di spareggio per avere la meglio sui “cugini”, il Reims non ha eccessive difficoltà a ribaltare al ritorno lo 0-1 patito in terra elvetica con un 3-0 che consente loro di replicare la sfida del ’56 contro un Real, con il “piccolo particolare” che, stavolta, Kopa veste la maglia avversaria.

Atto conclusivo che si disputa il 3 giugno ’59 al “Neckarstadion” di Stoccarda, ma che risulta molto meno avvincente di quello andato in scena tre anni prima, con il Real a passare in vantaggio già al primo minuto con Mateos, il quale fallisce al quarto d’ora un calcio di rigore facendosi ipnotizzare da Colonna e mandando su tutte le furie il Presidentissmo Bernabeu che, nell’intervallo, si precipita negli spogliatoi chiedendo spiegazioni sul perché non lo avesse calciato Di Stefano.

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Finale Real Madrid-Stade de Reims ’59 – da stade-de-reims.com

Tocca alla “saeta rubia” tranquillizzare il massimo dirigente madrileno, garantendo come non vi siano preoccupazioni per il risultato finale e difatti, al rientro in campo, si incarica di siglare il punto del 2-0 che spegne ogni speranza transalpina e consegna la quarta Coppa consecutiva al Real.

Con l’approssimarsi della conclusione del decennio, anche la stella dello Stade de Reims tende ad affievolirsi, pur se nelle sue file rientra il “figliol prodigo” Kopa proprio dopo la sfida nella Finale di Coppa dei Campioni, complice anche un grave infortunio che costa una doppia frattura al centravanti Fontaine nel corso del match del 20 marzo 1960 contro il Sochaux, ed anche se ciò non impedisce ai biancorossi di mettere in bacheca il loro quinto titolo nazionale, determina di fatto la fine della carriera, a soli 27 anni, del fortissimo attaccante, che anche in detta stagione era andato a segno 28 volte in altrettanti incontri, peraltro sufficienti a fargli vincere per la seconda volta la Classifica dei Cannonieri, nonché ben coadiuvato dai propri compagni di reparto, visto che Piantoni realizza 18 reti e Vincent e Kopa 14 a testa.

Privo del suo attaccante principe, lo Stade de Reims non va oltre il secondo turno della Coppa dei Campioni ’61, eliminato dagli inglesi del Burnley, per poi vivere il proprio “canto del cigno” nel 1962 con la conquista del sesto ed ultimo titolo di Campione di Francia della propria storia, stagione in cui si mette in luce il marocchino Hassan Akesbi, autore di 23 reti che gli valgono il titolo di Capocannoniere, Trofeo che, l’anno prima, era stato di pertinenza di Piantoni con 28 reti.

Ma, oramai, la carta d’identità inizia a pretendere il conto, ed i 30 anni suonati di Kopa, Vincent e Piantoni fanno sì che, dopo un ultimo significativo Torneo nel ’63, concluso al secondo posto a tre punti dai Campioni del Monaco – nel mentre l’avventura in Coppa dei Campioni termina ai Quarti di Finale, eliminato dal Feyenoord – la bella favola dello Stade de Reims abbia fine in concomitanza con l’addio del tecnico Batteux e l’umiliante retrocessione al termine della stagione ’64.

E’ comunque indubbio, che niente potrà mai cancellare il “Decennio d’Oro” della forse più forte squadra transalpina di ogni epoca a livello di Club, sicuramente quella che, grazie al suo gioco spumeggiante, tutto votato all’attacco, non ha che fatto degna pubblicità alla propria città, non a caso denominata “Patria dello champagne” …!!

 

HERMANN BARRELET, L’UNICO SINGOLO D’ORO DEL CANOTTAGGIO FRANCESE

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Hermann Barrelet – da alchetron.com

articolo di Nicola Pucci

Il francese Hermann Barrelet detiene ad oggi un record ancora imbattuto: alle Olimpiadi di Parigi del 1900 vinse la prova di singolo del canottaggio e mai in seguito un transalpino è stato capace di fare altrettanto.

Non ancora ventunenne, nato in Svizzera a Neuchatel ed affiliato alla Società nautica d’Enghien, campione di Francia nel 1898, Barrelet è tra i più attesi all’appuntamento a cinque cerchi e il 25 agosto, nel bacino d’Asnières-Courbevoie dove si svolgono le regate, già in batteria mette in chiaro quelle che sono le sue ambizioni. Alla prova sono iscritti 12 atleti, tra questi il britannico nato a Malta Saint-George Ashe che nella prima serie segna il tempo di 6’38″8. Barrelet scende in acqua nella batteria successiva, e curiosamente fa segnare lo stesso tempo del rivale, precedendo a sua volta il connazionale André Gaudin, che gli è succeduto come campione di Francia nel 1899, con Louis Prevel che nella terza batteria firma la miglior prestazione in 6’29″6 e Georges Delaporte che nell’ultima serie porta la sua imbarcazione a tagliare il traguardo in 6’33″8. In semifinale Barrelet è il più veloce, 8’23″0, precedendo lo stesso Gaudin ed Ashe, con  Prevel e Robert d’Heilly che completano i quintetto che il 26 agosto si da appuntamento per la regata decisiva.

Sulle due prove di Ashe, ad onor del vero, pende la spada di Damocle di una possibile squalifica, parrebbe per aver invaso in batteria la corsia occupata dal francese Raymond Benoit. Ma infine il canottiere britannico viene ammesso alla semifinale, e pure qui con il terzo posto non si guadagnerebbe il passaggio del turno. La sua protesta viene nondimeno accolta, e nonostante il disappunto degli stessi Barrelet e Gaudin, che lo hanno preceduto al traguardo, che minacciano di non prendere il via della gara, la finale può regolarmente andare in scena, con Ashe che si merita la qualificazione come miglior terzo.

E qui, sulla distanza di 1750 metri che copre il tratto tra il ponte Bineau e il ponte ferroviario d’Asnieres, Barrelet ancora una volta conferma appieno le sue doti. Hermann, infatti,  impiega 7 minuti 35 secondi 6 decimi a mettere la sua prua davanti a quella dei suoi avversari, anticipando nettamente Gaudin che viene distanziato di ben 6 secondi, mentre Ashe è terzo, soffiando la medaglia di bronzo a d’Heilly che chiude quarto staccato di soli 4 decimi, con Prevel costretto all’abbandono.

Per Hermann Barrelet, che diventa non solo il primo francese ma anche il primo canottiere a trionfare nella prova di singolo alle Olimpiadi, è l’apoteosi e l’anno dopo, nelle acque di lago di Zurigo, rinnoverà l’appuntamento con la vittoria meritandosi anche il titolo di campione d’Europa, per poi passare all’otto con cui sarà nuovamente il migliore nel 1909 e al doppio con il russo Anatole Peresselenzeff, pure qui vincendo agli Europei del 1913. Ma ben più di 100 anni dopo, la Francia attende ancora un canottiere che sia capace di eguagliarlo: quando mai un oro olimpico nel singolo verrà celebrato con le note della Marsigliese?

VLADIMIR KUTS, LO STAKANOVISTA DEL MEZZOFONDO SOVIETICO, CON QUALCHE OMBRA DI TROPPO

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Vladimir Kuts in azione – da racingpast.ca

articolo di Giovanni Manenti

Tra le molteplici specialità dell’Atletica Leggera, se c’è un settore dove l’Unione Sovietica ha sempre fatto fatica ad eccellere – anche nel periodo di suo massimo splendore – questo è il mezzofondo prolungato, e non solo a livello assoluto, ma anche nel più ristretto ambito continentale.

Ovviamente, ogni regola ha la sua eccezione e, nel caso dell’orso sovietico, questa ha le sembianze di un piccolo e tarchiato atleta di origini ucraine, tal Vladimir Kuts, nato ad Oleksyne ad inizio febbraio 1927, figlio di un operaio che muore a causa di problemi di alcoolismo quando il piccolo Vladimir ha appena 5 anni.

Non è un’infanzia felice, quella di Vladimir, a peggiorare la quale subentra anche l’orrore della Seconda Guerra Mondiale, con la sua città invasa dall’esercito tedesco, il che lo induce a falsificare la propria data di nascita per entrare a far parte – a soli 16 anni effettivi – dell’Armata Rossa, con il rischio, per fortuna scampato, di perire allorquando il treno che lo trasportava alla Scuola di Artiglieria è fatto oggetto di un bombardamento.

Ad evento bellico concluso, oramai maggiorenne, Kuts sceglie di arruolarsi nella Marina dell’Unione Sovietica, dove ha l’occasione di scoprire l’Atletica Leggera, avendo viceversa praticato da ragazzo altre discipline, quali canottaggio, sci e, soprattutto, il pugilato, Sport quest’ultimo che sembra aver inciso più di ogni altro nella sua formazione caratteriale, oltre che di atleta.

In un periodo – quello a cavallo tra la fine degli anni ’40 e l’inizio del successivo decennio – in cui il mezzofondo prolungato ha un solo ed incontrastato leader assoluto nella figure della leggendaria “Locomotiva umana” Emil Zatopek, il quale, da fine umorista quel era, se ne esce con una salace battuta sul rivale sovietico asserendo che “Kuts aveva scoperto l’atletica così come Cristoforo Colombo l’America, e cioè per caso …”, il nome del piccolo Vladimir (m.1,72 per 72kg.) inizia a farsi largo tra gli addetti ai lavori durante l’anno 1952, in cui corre le due classiche distanze dei 5 e 10mila metri con i rispettivi tempi di 14’32”2 e 31’02”4.

Accortisi di lui, la Federazione sovietica lo affida alle cure del celebre tecnico Leonid Khomenkov, il quale non impiega molto a rendersi conto di avere per le mani un atleta – ancorché non più giovanissimo, avendo già superato i 25 anni – in grado di esprimersi ai più alti livelli in una specialità come il mezzofondo che aveva sino ad allora regalato al proprio Paese la sola medaglia di bronzo di Aleksandr Anufriyev sui 10mila metri alle Olimpiadi di Helsinki ’52, peraltro ad oltre mezzo minuto dal vincitore Zatoopek.

Khomenkov può fare affidamento sulla voglia di emergere e lo spirito di sacrificio innati in Kuts, il quale non muove ciglio nel sottoporsi ad un massacrante programma di allenamento – doti massicce di “Interval Training”, alternate ad esercizi atti a sviluppare la muscolatura – che regalano immediati frutti in quella che si può senza alcun dubbio catalogare come la prima vera stagione ai vertici mondiali del 26enne ucraino, vale a dire il 1953, nel corso della quale migliora di mezzo minuto il proprio personale sui m.5000, portandolo a 14’02”2 il 27 agosto a Mosca, e di quasi 1’30” il limite sulla doppia distanza, corsa in 29’41”4 il 9 agosto a Bucarest, tanto da figurare rispettivamente al terzo e quarto posto del Ranking mondiale di fine anno stilato dalla prestigiosa rivista americana “Track & Field News”, classifiche ancora capeggiate dall’intramontabile Zatopek.

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Vladimir Kuts in allenamento – da gettyimages.co.uk

Kuts è oramai sulla rampa di lancio, pronto a scalare i vertici assoluti, ed una lampante dimostrazione delle proprie capacità la offre in occasione della sua prima partecipazione ad una grande Manifestazione internazionale, vale a dire i Campionati Europei di Berna ’54, a cui è iscritto sulla distanza dei m.5000, da sempre per lui più congeniale.

Rassegna continentale che si apre, manco a dirlo, con l’ennesimo trionfo di Zatopek sui 10mila metri – gara che in carriera lo ha visto solo vincitore – corsi il 25 agosto in 28’58”0 relegando, come di consueto, il secondo arrivato ù, nel caso l’ungherese Jozsef Kovacs, a quasi mezzo minuto di distanza, mentre il già citato Anufriyev conclude non meglio che ottavo in 30’19”4.

A risollevare le sorti del mezzofondo prolungato sovietico pensa proprio Kuts nella Finale dei m.5000 che si disputa quattro giorni dopo, avendo già fatto registrare il miglior tempo di 14’18”8 in qualifica, aggiudicandosi la seconda delle tre batterie.

Che il 27enne ucraino potesse essere uno dei pretendenti al podio ed anche alla medaglia d’oro era nella logica delle cose – ancorché proprio Zatopek avesse realizzato esattamente tre mesi prima, il 30 maggio ’54 allo Stadio di Colombes, in Francia, il suo unico primato mondiale sulla distanza, coperta in 13’57”2 per cancellare dall’albo dei primati lo straordinario 13’58”2 risalente al settembre 1942 dello svedese Gunder Hagg, purtroppo penalizzato dalla cancellazione di due edizioni dei Giochi olimpici a causa della Seconda Guerra Mondiale – ma è il modo in cui ottiene la vittoria che lascia tutti stupiti.

In un’epoca in cui la barriera dei 14’ netti è ancora un muro difficile da abbattere – prova ne sia come al pur grande Zatopek siano stati sufficienti tempi di 14’03”0 ed addirittura di 14’06”6 per far sue le medaglie d’oro agli Europei di Bruxelles ’50 ed ai Giochi di Helsinki ’52 – Kuts domina la Finale infliggendo oltre 12” di distacco alla coppia formata dal britannico Christopher Chataway e dallo stesso mezzofondista ceco, che chiudono nell’ordine, con tanto di nuovo primato mondiale, fissato in 13’56”6, abbassando di 0”6 decimi quanto stabilito da Zatopek appena 90 giorni prima.

E che la concorrenza fosse di prim’ordine, lo dimostra il “botta e risposta” tra Kuts e Chataway a colpi di primati mondiali che avviene nell’ottobre dello stesso anno, allorché è prima il 23enne londinese – con un successivo futuro in Politica nelle file del Partito Conservatore – a scendere sino a 13’51”6 (esattamente 5” in meno del record dell’ucraino …) il 13 ottobre nella Capitale inglese, con l’ultima parola spettante però a Kuts il quale, a 10 giorni di distanza, copre i 5 chilometri in 13’51”2, riappropriandosi del primato.

Ecco quindi che una specialità rimasta ferma per 13 anni, vede in una sola stagione migliorare il proprio record assoluto ben quattro volte e, soprattutto, abbassare il relativo limite di ben 7” (dai 13’58”2 del già citato Hagg ai 13’51”2), ma il bello era ancora da venire, con Kuts ovviamente nelle vesti di protagonista, nel frattempo passato sotto le grinfie (è proprio il caso di dirlo …) del capo dei tecnici federali sovietici, tale Gregory Nikiforov, uno che non lasciava nulla di intentato per portare i propri atleti ai vertici della specialità, con pratiche più o meno lecite.

Il 1955 è comunque – dopo che Kuts ha scalato la vetta del Ranking mondiale di fine anno ’54 sui 5000 metri e posizionato al terzo posto sulla doppia distanza, sulla quale si è migliorato sino a 29’21”4 corsi a Kiev il 12 settembre – l’anno in cui emerge nel panorama del mezzofondo prolungato la stella del 25enne ungherese Sandor Iharos che, dopo aver partecipato con scarso successo ai Giochi di Helsinki (eliminato in batteria) ed agli Europei di Berna ’54 (sesto in Finale) sui 1500 metri, decide di dedicarsi alle più lunghe distanze con risultati sbalorditivi.

In una stagione priva di grandi appuntamenti internazionali, i mezzofondisti hanno l’occasione di darsi battaglia a suon di primati, ed il primo a lanciare la sfida è Iharos che, il 10 settembre ’55, corre i 5 chilometri in 13’50”8, appena 0”4 decimi in meno del record di Kuts, la cui risposta, proprio come avvenuto con Chataway l’anno prima, non di fa attendere, replicando appena 8 giorni dopo a Belgrado, limando il recente primato di 4” netti prima che Iharos sferri il colpo del ko con una sensazionale prestazione che porta il limite ad uno straordinario 13’40”6 corsi ancora nella Capitale magiara il 23 ottobre, dando così alla specialità un’ulteriore accelerata che la fa progredire di oltre 10” nell’arco di soli 12 mesi.

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L’ungherese Sandor Iharos nel 1955 – da index.hu

Sceso nel frattempo sotto i 29’ anche sui 10mila metri, grazie al 28’59”2 corso il 3 ottobre ’55 a Bucarest, e chiusa la stagione preolimpica scalzato da Iharos al vertice del Ranking mondiale sui m.5000, ma appropriandosi della prima posizione sulla doppia distanza, precedendo l’ungherese Jozsef Kovacs, il britannico Gordon Pirie ed uno Zatopek oramai al capolinea della propria straordinaria carriera, Kuts si prepara all’appuntamento principale della propria attività agonistica, vale a dire le Olimpiadi di Melbourne ’56 che possono causare alcuni problemi di ambientamento per gli atleti europei, in quanto in programma a fine novembre, per quello che è, al contrario, il periodo estivo nell’emisfero australe.

In ogni caso, la preparazione alla rassegna a cinque cerchi vede gli specialisti del Vecchio Continente non lesinare sforzi, visto che l’inglese Pirie migliora per due volte il record mondiale sui m.3000 piani detenuto proprio da Iharos, al quale toglie anche il primato sulla distanza olimpica dei 5000 metri correndo in 13’36”8 il 19 giugno ’56 a Bergen, in Norvegia – gara nella quale ha la meglio proprio su Kuts, che realizza a propria volta il suo miglior risultato con 13’39”6 – nel mentre il magiaro compie l’impresa di cancellare Zatopek dall’albo d’oro dei record sulla doppia distanza, corsa in un eccellente tempo di 28’42”8 il 15 luglio, sempre a Budapest.

Un’impresa che migliora di ben 11”4 il precedente limite del fuoriclasse ceco, ma che impallidisce rispetto a quanto Kuts riesce a fare alla vigilia dei Giochi di Melbourne, scendendo sino a 28’30”4 (con un miglioramento pertanto di 12”4 …!!) corsi l’11 settembre a Mosca.

Una grossa, involontaria mano alle possibilità di fregiarsi della Gloria Olimpica giunge all’oramai 29enne ucraino dai propri connazionali, sotto forma della sanguinosa repressione della rivolta ungherese di fine ottobre ’56, il che impedisce ad Iharos – che all’epoca dei fatti si trova in Austria e rientra a Budapest per prendere attivamente parte alla difesa del proprio Paese – di prendere parte ai Giochi australiani, privando la manifestazione di una delle sfide più attese dell’intero programma di Atletica Leggera, con pertanto il britannico Pirie ad essere considerato come il suo più autorevole antagonista in entrambe le prove di mezzofondo, vista anche la sconfitta che gli aveva inflitto a giugno in Scandinavia.

Occorre adesso, prima di addentrarsi sull’esito delle gare olimpiche, fare due digressioni in merito ai comportamenti di Kuts, la prima delle quali è legata alla sua tattica di gara, che lo vede imporre sin dall’inizio un’andatura tesa da indurre all’esaurimento i suoi avversari, sperando che ciò li demoralizzi al punto da non avere più la forza di mantenerne il ritmo anche quando lo stesso sovietico risulterebbe in riserva di energie, un atteggiamento che già aveva dato i suoi frutti in occasione della vittoriosa Finale sui 5000 metri agli Europei di Berna ’54.

La seconda questione è un attimino più complessa, in quanto riflette determinate pratiche non propriamente lecite imposte dal già ricordato Nikiforov al suo atleta, del quale controllava ogni istante della vita, compresa quella affettiva – Kuts si era sposato con la giornalista russa Raisa Andreyevna, la quale lo aveva aiutato ad imparare la grammatica russa, visto che da bambino aveva completato solo 6 anni di studi scolastici ed era solito mescolare la lingua russa con l’ucraina – e che vengono una prima volta alla luce allorché, ad un mese circa dall’inizio dei Giochi, gli vengono riscontrate pressione alta, battiti a riposo di 120 al minuto ed un soffio al cuore, costringendolo a due settimane di riposo assoluto prima di essere autorizzato a correre.

Ecco quindi Kuts allineato tra i 25 iscritti alla gara dei 10mila metri che si svolge il 23 novembre ’56 al “Cricket Ground” di Melbourne, che il mezzofondista di origini ucraine affronta con la sua solita tattica di fiaccare la resistenza dei suoi avversari chilometro dopo chilometro, mettendosi sin dall’avvio alla testa della corsa.

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La corsa solitaria di Kuts sui m.10.000 – da gettyimages.it

Sulla scorta di quanto avvenuto cinque mesi prima a Bergen, il solo Pirie – il quale vanta peraltro un “personale” di 29’17”2 sulla distanza – accetta la sfida di seguire il ritmo imposto dal primatista mondiale e mal gliene colse, in quanto a cinque giri dal termine, al completamento dell’ottavo chilometro, è talmente scarico di energie da essere progressivamente superato da chi aveva meglio dosato le proprie forze, concludendo non meglio che in una deludente ottava posizione sopra i 30’, nel mentre Kuts va a trionfare in solitario con il nuovo record olimpico di 28”45”6 (inferiore di ben 31”4 rispetto a quanto corso da Zatopek ad Helsinki quattro anni prima …), nel mentre alle sue spalle la lotta per l’argento è appannaggio di Kovacs che ha la meglio in volata (28’52”4 a 28”53”6) sull’idolo di casa, l’australiano Allan Lawrence.

Tre giorni dopo sono in programma le batterie dei 5000 metri, gara alla quale Kuts è incerto se prendere parte in quanto preoccupato per la propria salute, visto che dopo la Finale dei 10 chilometri sono state rilevate tracce di sangue nelle sue urine, ma un Dirigente della Federazione sovietica lo convince a presentarsi ai nastri di partenza con la promessa di una pensione da Generale qualora avesse corso e vinto.

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Kuts si lancia all’attacco nella finale dei m.5000 – da gettyimages.it

Se sia stata o meno questa la giusta motivazione, resta il fatto che, dopo essersi “riposato” in batteria, Kuts non cambia certo atteggiamento nella Finale del 28 novembre, imponendo alla gara la medesima tattica tendente a stroncare la resistenza del lotto dei concorrenti, in questa occasione ancor più facilitata dal fatto che Pirie, ancorché detentore del record mondiale, si guarda bene dal ripetere l’errore commesso sulla doppia distanza, dando per scontata la superiorità dell’atleta sovietico e puntando più a salire sul podio, circostanza che consente al mezzofondista sovietico di andare a bissare l’oro dei 10mila metri in perfetta solitudine, pur facendo segnare l’eccellente tempo di 13’39”6 – che migliora di ben 27” (!!) il precedente primato olimpico di Zatopek di Helsinki ’52 – che rimarrà ineguagliato a tale livello per 16 anni, sino alla vittoria del finlandese Lasse Viren a Monaco ’72, mentre il distacco di 11” esatti inflitto a Pirie (argento con 13’50”6 rispetto al 13’54”4 del connazionale Ibbotson) resta tutt’oggi, a 60 anni di distanza, il più ampio margine in una Finale olimpica.

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Pirie, Kuts ed Ibbotson, il podio dei m.5000 – da racingpast.ca

Raggiunto l’apice della carriera, con la scontata veste di leader su entrambe le distanze nel Ranking Mondiale di fine anno, Kuts vive la sua ultima stagione ad alti livelli nel 1957, allorquando dà un ultimo schiaffo a Pirie togliendoli il record mondiale sui m.5000 grazie al 13’35”0 corsi il 13 ottobre allo Stadio Olimpico di Roma, un primato che resisterà poco più di 7 anni prima che a batterlo sia il più famoso dei “perdenti di successo”, vale a dire l’australiano Ron Clarke.

Da lì in poi, i problemi fisici di Kuts aumentano a dismisura, iniziando a soffrire di dolori diffusi in tutto il corpo, tant’è che gli viene diagnosticata un’anomala permeabilità dei capillari venosi e linfatici, che viene fatta risalire al fatto di un incidente occorsogli nel 1952 in cui rischiò il congelamento dopo essere caduto in un fiume.

Tutte queste difficoltà vengono, al contrario, strumentalizzate dai Paesi occidentali – ricordiamo essere nel bel mezzo della “guerra fredda” tra le due Superpotenze Usa ed Urss – circa l’uso di sostanze dopanti da parte dell’atleta russo, la cui salute era indubbiamente messa a rischio dal ferreo regime di allenamenti a cui era sottoposto dal suo allenatore, tanto che è lo stesso Kuts ad ammettere come “Nikiforov sembrasse una sorta di boia, determinato a spezzarmi corpo ed anima per farmi diventare un guerriero capace di sopportare qualsiasi fatica a livello sportivo …”.

Peraltro, altre testimonianze depongono a sostegno dell’usi di sostanze illecite da parte del mezzofondista ucraino, a partire proprio da Zatopek con cui ebbe a condividere un periodo di allenamento in Australia in vista dei Giochi, il quale affermò come “Kuts era solito assumere determinate bevande, preparate dal suo coach, durante le sedute, dopo le quali le sue prestazioni sul giro immediatamente scendevano da 66/68” a 60/62 secondi …”, così come Gordon Pirie scrisse un articolo secondo cui “ai Giochi di Melbourne Kuts era drogato oppure ipnotizzato, con ciò non volendo accusarlo, data la sua conclamata sportività, di aver accettato di sua volontà qualsiasi tipo di trattamento, ma di essere stato costretto a ciò dai Dirigenti della squadra sovietica”.

Quale che sia la verità, le minacce dei medici circa il fatto che, continuando ad allenarsi a certi ritmi avrebbe messo a repentaglio la propria vita, convincono Kuts ad abbandonare definitivamente l’attività agonistica nel 1959, ma ciò non contribuisce a migliorane l’esistenza quotidiana, subendo già l’anno successivo un primo attacco di cuore per poi cadere anch’esso in gravi problemi di alcoolismo che lo vedono scolarsi fino anche a 5 bottiglie di vodka al giorno, con conseguente divorzio dalla prima moglie ed un successivo secondo matrimonio con Raisa Tomofeyevna, anch’esso di breve durata.

Le autorità sovietiche impediscono la pubblicazione di foto che ritraggono l’ex dominatore del mezzofondo in uno stato così abietto, anche se successive cure disintossicanti gli consentono di ritrovare una parvenza di serenità grazie all’incarico affidatogli di allenatore della squadra di mezzofondo del proprio Paese, ma a seguito di un nuovo attacco cardiaco patito nel 1972 gli viene impedito di seguire i suoi atleti ai Giochi di Monaco ’72.

E’ questa la classica goccia da cui Kuts non si riprenderà più e, concluso in modo burrascoso anche il secondo matrimonio nel 1973, si ritira in solitudine tornando a consolarsi con l’alcool che lo fa aumentare di peso sino a 120kg., circa 50 in più del periodo agonistico, per poi trovare la fine alla propria oramai precaria esistenza il 16 giugno 1975 all’età di soli 48 anni per cause non del tutto precisate, visto che il referto ufficiale parla di infarto, anche se molti ritengono possa essersi trattato di suicidio dovuto ad un mix di vodka e sonniferi a seguito di un violento litigio con l’ex coniuge.

Si conclude così, tragicamente, la parabola terrena di colui che è riuscito ad elevare il mezzofondo prolungato sovietico a livelli di eccellenza mai toccati in precedenza e che altrettanto non saranno eguagliati in futuro, anche se il “prezzo pagato” si è rivelato, alla fine, purtroppo eccessivo…

GEORGE HODGSON, I PRIMI ORI CANADESI DEL NUOTO A STOCCOLMA 1912

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George Hodgson nei 1500 metri alle Olimpiadi di Stoccolma 1912 – da it.wikipedia.org

articolo di Nicola Pucci

Alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912 il canadese George Hodgson primeggia nelle distanze lunghe dello stile libero, mettendosi al collo due medaglie d’oro. Ed è un’impresa, che se ha i crismi della prima volta per il paese del trifoglio, è pure destinata ad entrare di diritto nella storia a cinque cerchi degli sport acquatici. Leggete il racconto, e scoprirete perché.

Si comincia con la gara dei 1.500 metri, a cui prendono parte 19 atleti provenienti da 11 paesi. Il britannico Henry Taylor è campione in carica nonché primatista del mondo, 22’48″4, ma Hodgson, giovanotto di Montreal non ancora 19enne, proveniente da una famiglia di sportivi che hanno eccelso nell’hockey su ghiaccio, in atletica e nella disciplina del lacrosse, già nel corso della sua batteria, la terza, abbatte nettamente il limite, portandolo a 22’23″0. Jack Hatfield è l’altro pretendente autorevole alla vittoria, mentre l’unico italiano impegnato, Mario Massa, non conclude la prova e viene eliminato. Nelle prima semifinale Hodgson e Hatfield nuotano fianco a fianco terminando ai primi due posti, mentre si mettono in luce l’australiano Hardwick e l’ungherese Von-Las Torres, che morirà qualche anno dopo durante la Prima Guerra Mondiale sul fronte balcanico, con Taylor che in difficoltà è costretto all’abbandono e non può difendere il titolo. In finale non c’è storia, Hodgson prende il comando fin dall’avvio, prima con qualche metro di vantaggio su Hardwick, poi allungando su Hatfield. Migliora il primato del mondo al passaggio dei 1.000 metri e chiude la gara in 22’00″0, altro primato del mondo, continuando poi fino alla distanza del miglio, coperta con il terzo record del mondo in pochi minuti.

Il giorno dopo Hodgson entra in acqua per la distanza dei 400 metri, gara che lamenta l’assenza dell’australiano Beaurepaire, primatista del mondo e medaglia d’argento quattro anni prima a Londra alle spalle di Taylor, tacciato di professionismo per aver tenuto lezioni di nuoto a pagamento. Stavolta i partecipanti sono 26, con i due italiani Davide Baiardo e Mario Massa che non vanno oltre la loro batteria, e ancora una volta Hardwick e Hatfield sono i principali rivali di Hodgson, insieme all’altro australiano Cecil Healy che firma il nuovo record olimpico con il tempo di 5’34″0. Hodgson si risparmia in batteria, ma già in semifinale, dove ancora si spenge il sogno di Taylor di bissare il successo londinese, presenta le sue credenziali, con un clamoroso 5’25″4, ancora migliorato in finale di 1 secondo per un primato olimpico che solo nel 1924 “Tarzan” Weissmuller riuscirà a migliorare, vincendo facilmente davanti proprio ad Hatfield e Hardwick, per un podio esattamente fotocopia di quello dei 1.500 metri.

Per Hodgson, che pratica uno stile noto come trudgen, antesignano di quel crawl definitivamente messo a punto proprio da Weissmuller, è l’apoteosi e per il Canada si chiude un’Olimpiade che segna la sua prima volta sul gradino più alto del podio del nuoto. Sapete quanta acqua dovrà passare sotto i ponti perché ciò avvenga di nuovo? Los Angeles 1984, fate un po’ i conti…

OLIVER HALASSY, LA GLORIA E LA TRAGICA FINE DEL PIU’ FORTE ATLETA DISABILE DI OGNI EPOCA

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Oliver Halassy – da ujpest.hu

articolo di Giovanni Manenti

Se si pensa al confronto tra atleti disabili rispetto ai normodotati, il riferimento non può che andare al quattrocentista sudafricano Oscar Pistorius, il quale – al di là della triste vicenda giudiziaria di cui è successivamente protagonista in negativo – passa alla Storia per aver vinto la propria battaglia che lo ha visto confrontarsi a Londra 2012 nelle “Olimpiadi dei Grandi”, venendo eliminato nelle semifinali dei m.400 piani.

Ciò in quanto, sin dal 1960, gli atleti disabili hanno a disposizione una loro personale rassegna, denominata Paraolimpiadi, in cui gareggiano nelle varie discipline suddivisi in diverse categorie a seconda dell’handicap con cui sono costretti a convivere, una manifestazione che negli ultimi decenni si è sempre più estesa tanto da assumere un livello ed una risonanza mediatica pressoché pari all’evento principale.

Può, pertanto, risultare quantomeno strano ed anomalo venire a conoscenza come, nel periodo tra le due guerre mondiali, vi sia stato un atleta disabile capace non solo di gareggiare alla pari con gli altri più fortunati di lui, ma anzi di eccellere al punto di divenire uno dei più medagliati di ogni epoca nello Sport da lui praticato, vale a dire la Pallanuoto.

Il soggetto in questione – il cui nome ai più dirà poco o niente – è tal Oliver Haltmayer, nato a Budapest a fine luglio 1909, all’epoca in cui l’attuale Capitale magiara faceva parte dell’Impero Austroungarico, il quale difatti cambia successivamente il proprio cognome in Halassy secondo la fonetica ungherese.

Bersagliato dalla sfortuna nella sua breve vita, Oliver subisce, a soli 8 anni di età, rimasto vittima di un terribile incidente stradale, l’amputazione della gamba sinistra – finita sotto un tram nelle strade di Budapest – appena sotto il ginocchio, un handicap al quale reagisce dedicandosi allo sport che tanto lo attira, vale a dire il Nuoto, che pratica tesserandosi per la polisportiva dell’Ujpest, un quartiere nella zona a Nord della capitale ungherese.

Per chi ha dimestichezza con tale disciplina, si renderà conto di quale possa essere la difficoltà di praticare l’attività natatoria potendo contare sulla spinta in acqua del solo piede destro, circostanza che non impedisce peraltro ad Halassy di eccellere in patria (e non solo …) nelle lunghe distanze a stile libero, cimentandosi sui 400, 800 e 1500 metri, dopo essersi messo in luce a 16 anni aggiudicandosi la gara di gran fondo su 9 chilometri nuotati nel Danubio.

Dall’anno successivo e sino al 1938, allorché cessa l’attività agonistica, Halassy conquista ben 14 titoli nazionali – 2 nei 400, 5 negli 800 e 7 nei 1500 metri stile libero – ai quali abbina 11 record nazionali, prestazioni che gli consentono di acquisire quelle doti di resistenza necessarie per poi emergere a livello assoluto nello Sport affine, vale a dire la Pallanuoto che lo vede aggiudicarsi cinque titoli di Campione ungherese con l’Ujpest, nonché, soprattutto, emergere ai massimi livelli assoluti, sia continentali che olimpici.

A chi, a questo punto della storia, può – anche a giusta ragione – obiettare che prima di Halassy vi fosse già stato un atleta portatore di handicap capace di trionfare in una rassegna a cinque cerchi, vale a dire l’americano George Heyser, che ai Giochi di Saint Louis 1904 si aggiudica ben 6 medaglie (tre ori, due argenti ed un bronzo …) nella Ginnastica pur gareggiando con una protesi di legno nella parte inferiore della gamba sinistra, amputata essendo finita accidentalmente sotto un treno, vale la pena di replicare chiarendo il diverso contesto tra le due imprese.

Senza nulla togliere ai meriti di Heyser, infatti, la terza edizione dei Giochi Olimpici si traduce più o meno in una sorta di Campionato Nazionale americano, visto che gli atleti a stelle e strisce conquistano ben 239 medaglie (la seconda Nazione, la Germania, se ne aggiudica appena 13 …), stante le difficoltà per i Paesi europei di varcare, all’epoca, l’Oceano Atlantico, ed altresì il ginnasta vede limitata la propria impresa a tale singolo appuntamento, mentre per Halassy, sia la concorrenza che la durata dei propri successi sono di ben altro spessore.

L’esordio nell’arengo olimpico avviene, per l’allora 19enne ungherese, alle Olimpiadi di Amsterdam 1928 quale componente della formazione di Pallanuoto che, proprio nella Capitale olandese inaugura una straordinaria striscia che la vedrà per 12 edizioni consecutive (!!) dei Giochi salire sul podio – con 6 medaglie d’oro, 3 d’argento ed altrettante di bronzo – serie interrottasi nell’edizione di Los Angeles ’84 per il semplice motivo che l’Ungheria non vi partecipa per il noto contro boicottaggio da parte dei Paesi aderenti al blocco sovietico.

All’epoca, la più fiera rivale dei magiari in piscina era la Germania dei fratelli Erich e Joachim Rademacher, che difatti le soffia l’oro nella Finale del 10 agosto 1928, ribaltando un iniziale svantaggio di 0-2 per il 5-2 conclusivo grazie alle doppiette di Karl Bahre e Max Amann ed all’acuto di Otto Cordes, dopo che l’Ungheria si era sbarazzata, nei turni precedenti, di Argentina (14-0), Stati Uniti (5-0) e della Francia in semifinale, sconfitta per 5-3.

Una delusione che Halassy ha modo di riscattare sin dalla terza edizione dei Campionati Europei, svoltisi a Parigi nel 1931 dove l’Ungheria, già Campione sia a Budapest 1926 che a Bologna ’27, completa il tris di medaglie d’oro consecutive dominando il Girone all’italiana formato dalle 7 Nazioni partecipanti, con 6 vittorie ed un solo pareggio, per 2-2 contro la Germania, alla quale è fatale un secondo risultato nullo per 3-3 contro il Belgio per vedere svanire un titolo che i magiari giustificano con ben 52 reti realizzate ed appena 7 subite.

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Halassy dopo il successo sui m.1500sl agli Europei ’31 – da wikipedia.org

L’edizione parigina della rassegna continentale ha però per il 22enne magiaro un valore doppio, in quanto lo stesso scende in acqua il 23 agosto ’28 per la prima sfida contro i padroni di casa francesi – sommersi sotto un eloquente 12-1 – appena un paio d’ore dopo essersi altresì laureato Campione europeo sui m.1500sl, in una Finale che lo vede avere la meglio in un entusiasmante finale (20’49”0 a 20’50”6) sull’italiano Giuseppe Perentin, con l’altro azzurro Paolo Costoli a completare il podio facendo suo il bronzo, sia pur a debita distanza, con 21’09”4.

Questa resta l’unica medaglia a livello internazionale di Halassy nel Nuoto, concentrandosi nei successivi appuntamenti esclusivamente sulla Pallanuoto, che lo vede protagonista di un poker di successi senza eguali, ad iniziare dalle Olimpiadi che si svolgono l’anno seguente a Los Angeles.

Con sole 5 squadre iscritte al Torneo Olimpico – poi ridotte a quattro per la squalifica del Brasile, i cui giocatori aggrediscono gli arbitri al termine dell’incontro d’esordio con la Germania – ed i citati tedeschi gli unici altri a rappresentare il Vecchio Continente, l’assegnazione della medaglia d’oro si decide al debutto del 6 agosto 1932 nella sfida tutta europea, che vede stavolta l’Ungheria avere nettamente la meglio per 6-2, per poi sostenere poco più di un allenamento nel sommergere di reti i malcapitati giapponesi (17-0 con 7 marcature a portare la firma di Halassy) ed i padroni di casa americani, sconfitti per 7-0, con ancora Halassy protagonista con 4 reti messe a referto, e del quale il pallanotista americano Frank Graham ebbe a dire, dopo averci giocato contro, “essere il più forte giocatore che io abbia mai affrontato …”.

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L’Ungheria, con Halassy ultimo a destra, ai Giochi ’32 – da shootingparrots.co.uk

E’ questo il periodo del primo “Dream Team” magiaro nella Pallanuoto, che schiera una formazione dove, oltre al protagonista della nostra storia, eccellono Istvan Barta, Gyorgy Brody, Sandor Ivady, Janos Nemeth, Miklos Sarkany, Jozsef Vertesy ed i fratelli Alajos e Ferenc Keseru, tutti a centrare l’accoppiata europea/olimpica nel biennio 1931-’32.

Ma Halassy si distingue anche per l’inaspettata longevità, a dispetto della propria menomazione, allorché è uno dei 7 titolari della formazione che due anni dopo, alla Rassegna Continentale di Magdeburgo ’34, si conferma per la quarta volta consecutiva Campione Europea al termine di un torneo senza macchia alcuna, che vede l’Ungheria aggiudicarsi da imbattuta il proprio Girone a cinque squadre con 22 reti fatte e sole 3 subite, per poi non fare sconti neppure nella Poule finale, dove a soccombere sono i tedeschi padroni di casa (sconfitti per 4-1) ed il Belgio, che oppone una fiera resistenza, cedendo solo per 2-1.

Tedeschi che contano di prendersi la rivincita in sede olimpica, visto che tocca a loro l’organizzazione dei Giochi di Berlino ’36, in cui Halassy è uno dei cinque componenti – assieme a Brody, Nemeth, Sarkany ed a Marton Homonnai, l’unico, con lui, presente anche ad Amsterdam ’28 – la formazione vincitrice dell’oro olimpico quattro anni prima in terra californiana, ma anche stavolta le loro attese restano deluse.

In un Torneo per la prima volta degno di un panorama come quello a cinque cerchi, con ben 16 Paesi partecipanti, le compagini iscritte vengono suddivise in quattro Gironi da quattro squadre, che qualificano le prime due ai due successivi Gironi di Semifinale, con ancora le prime due ad accedere al Girone finale a quattro per l’assegnazione delle medaglie.

Una competizione, pertanto, piuttosto lunga e faticosa, ma che i Campioni Olimpici ed Europei in carica affrontano con il dovuto approccio, tanto da superare senza alcuna difficoltà la prima fase – vittorie per 4-1 sulla Jugoslavia, 12-0 su Malta (quattro reti di Halassy) e 10-1 sulla Gran Bretagna, con l’oramai 27enne magiaro ancora a segno – così come la seconda, dove a soccombere sono stavolta il Belgio e l’Olanda, sconfitte per 3-0 ed 8-0 rispettivamente.

Con la Germania a compiere identico “percorso netto”, il Girone finale a quattro vede qualificate, oltre alle due aspiranti alla medaglia d’oro, anche Belgio e Francia, con i risultati del turno precedente a valere nella Classifica finale (i tedeschi avevano vinto 8-1 sui transalpini), così che il 14 agosto ’36 risulta determinante lo scontro diretto tra i padroni di casa e l’Ungheria, che però non risulta decisivo in quanto le due formazioni concludono la sfida sul punteggio di parità per 2-2.

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Halassy (terzo da destra) con l’Ungheria ai Giochi di Berlino ’36 – da ushmm.org

Tocca quindi al giorno dopo stabilire l’assegnazione delle medaglie e, con entrambe le squadre a disporre con facilità dei rispettivi avversari – 5-0 per l’Ungheria sulla Francia e 4-1 per la Germania sul Belgio – la discriminante, a parità di punti (5 per parte), diviene il quoziente reti, che privilegia i magiari (10-2 per un coefficiente di 5) rispetto ai tedeschi (14-4 per un coefficiente di 3,5) laddove, qualora si fosse applicata, come al giorno d’oggi, l’alternativa differenza reti, il risultato sarebbe stato l’opposto.

Aiutata in questo caso dal regolamento, l’Ungheria ribadisce però la propria superiorità due anni dopo in occasione dei Campionati Europei di Londra ’38, dove cala il “Pokerissimo” di cinque titoli consecutivi – impresa mai più realizzata in seguito da alcuna Nazionale – con l’oramai quasi consueto en plein che la vede far suoi tutti e 6 gli incontri del Girone unico tra le 7 formazioni iscritte, con i soli tedeschi (sconfitti per 2-0 nello scontro diretto) a tenerle testa, chiudendo con 35 reti a favore rispetto alle sole 3 subite nel corso del Torneo.

Per Halassy – con tre ori europei, oltre al citato quarto nei m.1500sl, due ori ed un argento olimpici – giunge il momento di chiudere con l’attività agonistica, trovare un’occupazione quale revisore dei conti presso l’amministrazione locale della Capitale ungherese e metter su famiglia, contraendo matrimonio da cui nascono due figli, con un terzo in arrivo.

Ma quella che sarebbe la normale, logica prosecuzione di una vita al di fuori delle piscine non trova d’accordo un avverso destino che riserva ad Oliver, già provato dalla menomazione in età infantile, un ulteriore tragico epilogo poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale.

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La statua a lui dedicata – da shootingparrots.co.uk

Per cause mai completamente chiarite, la sera del 10 settembre ’46, mentre se ne torna a casa in taxi, viene freddato a pochi passi dalla propria abitazione, secondo alcune versioni da due ladri al termine di una colluttazione, per altre da un militare sovietico al quale non avrebbe obbedito circa l’ordine di fermarsi e farsi identificare, fatto sta che la sua breve esistenza si spegne a soli 37 anni di età, senza avere la gioia di assistere alla nascita del terzo figlio che sarebbe avvenuta pochi giorni dopo.

Ma di una cosa siamo, viceversa sicuri, vale a dire di come sarà stata la madre a raccontare al piccolo, così come ai fratelli, le gesta di un padre di cui non potevano che essere orgogliosi, esempio lampante di come con l’impegno ed il sacrificio si possano ottenere risultati straordinari a dispetto di menomazioni fisiche…

BODIROGA, “IL COLOSSO DI MAROUSI” CHE DECISE LA FAVOLOSA SEMIFINALE MONDIALE CON LA GRECIA DEL 1998

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Dejan Bodiroga – da video.gazzetta.it

articolo di Nicola Pucci

Sarebbe riduttivo stilare una classifica dei giocatori europei che più di altri hanno regalato diamanti di sapienza cestistica. Tra questi, nondimeno, uno di loro merita un posto particolare, per raffinatezza ed eleganza del gesto, un certo Dejan Bodiroga, che per almeno tre lustri ha deliziato le platee d’Europa.

Bodiroga, classe 1973, serbo di nascita nella cittadina di Klek, proviene dall’inesauribile fucina di fuoriclasse del canestro che da sempre è la Yugoslavia, a fine anni Ottanta non ancora infiammata dai germi distruttivi delle ideologie nazionaliste che di lì a poco ridurranno a brandelli l’illusione unitaria coltivata dal maresciallo Tito. Il giovane Dejan apprende il mestiere velocemente, illustrando un talento raro e attirando su di se le attenzioni dello Zara, che appena 17enne lo lancia in prima squadra venendone ben presto ripagato con prestazioni che convincono il selezionatore della Nazionale yugoslava a selezionarlo per i Mondiali Under 19 del 1991 che hanno sede in Canada e vedranno infine Bodiroga eletto MVP della rassegna. Succederà ancora, in ben altro contesto.

Lo scoppio della guerra in Yugoslavia spreme un’enorme tributo non solo di sangue umano ma anche di speranze individuali disilluse, e Dejan, serbo in casa croata, nel 1992 è costretto a lasciare Zara, per accasarsi in Italia all’ambiziosa Stefanel Trieste di Bogdan Tanjevic, dopo aver rifiutato le allettanti proposte di Aek Atene e Olympiacos che hanno imposto al ragazzo, conditio sine qua non, di acquisire cittadinanza greca. Due anni in Friuli e due successive stagioni a Milano sono più che sufficienti per innalzare il campione serbo a stella di primissima grandezza del panorama europeo del basket, status che verrà confermato, anzi oserei affermare senza pericolo di smentita alcuna, rinforzato dalle esperienze che porteranno Dejan a vestire in successione le casacche di Real Madrid, Panathinaikos e Barcellona, concludendo poi la carriera nuovamente in Italia, a Roma. Ma c’è un luogo, un evento ed una data speciale nel suo percorso agonistico che forse più di ogni altro rende pieno merito alla classe di Bodiroga.

Corre l’anno 1998 e a chiusura di un quadriennio che ha visto la Yugoslavia, smembrata geopoliticamente ma ancora attiva a livello sportivo seppur composta esclusivamente da giocatori serbi, dominare due edizioni degli Europei (1995 in Grecia e 1997 in Spagna) ed esser giunta seconda alle Olimpiadi (1996 ad Atlanta), la stessa Grecia ospita l’edizione numero 13 dei Mondiali. In cui gli Stati Uniti, detentori del titolo in virtù del successo di quattro anni prima in Canada con Shaquille O’Neal eletto miglior giocatore del torneo, ad onor del vero stavolta si vedono costretti dal serrate dei giocatori NBA che ritarderà l’inizio della Lega, a schierare una formazione composta di soli atleti ingaggiati in Europa. E questo penalizzerà la squadra di Rudy Tomjanovich, che non andrà oltre il terzo posto.

Sedici squadre sono puntuali all’appuntamento iridato, tra queste l’Italia, che chiuderà in sesta posizione, guidata in panchina proprio da Tanjevic e con in campo un Gregor Fucka tanto bravo da venir infine inserito nel quintetto ideale della rassegna. Ma con gli Stati Uniti in formato ridotto, sono la stessa Yugoslavia che Zeljko Obradovic ha già portato sul tetto del mondo nel 1990 in Argentina, la Russia del leggendario Sergej Belov e i padroni di casa della Grecia con l’altrettando leggendario (almeno per gli ellenici) Panagiotis Yannakis che dal campo si è spostato in panchina, a dividersi i favori del pronostico, con la Spagna del bomber Herreros, l’Argentina di un giovane Ginobili e la Lituania orfana di Sabonis a giocare il ruolo di outsiders.

In effetti la prima fase a gironi non riserva sorprese, con la Grecia ad imporsi nel Gruppo A demolendo l’Italia 64-56 nello scontro diretto, la Yugoslavia che nel Gruppo B prevale 82-74 sulla Russia con Rebraca che ne mette 23 e raccatta 14 rimbalzi, la Lituania che nel Gruppo C smaschera la mancanza di competitività ad altissimi livelli degli Stati Uniti e la Spagna che nel Gruppo D batte in volata sia l’Australia di Gaze ed Heal che l’Argentina presa per mano da un eccellente Hugo Sconochini garantendosi il primo posto davanti ai sudamericani. Con i risultati acquisiti nel primo turno, le migliori otto squadre accedano alla seconda fase, suddivise in due gironi, e se la Yugoslavia, a dispetto di una sconfitta di misura con l’Italia che con il successo per 61-60 grazie a 16 punti di Fucka vola ai quarti di finale, accede al tabellone ad eliminazione diretta assieme anche a Russia e Grecia, altrettanto fanno Stati Uniti, Spagna, Argentina e Lituania, ovvero tutte le formazioni che all’inizio della manifestazione comparivano nei pronostici degli addetti ai lavori.

Ed ai quarti di finale le cose cominciano a farsi interessanti, con la Russia che non lascia scampo nel derby alla Lituania, 82-67 grazie a 31 punti di Karasev, gli Stati Uniti che eliminano di un niente un’Italia coriacea, 80-77 nonostante i 32 punti di un enorme Carlton Myers, e Yugoslavia e Grecia che guadagnano un posto tra le migliori quattro battendo Argentina e Spagna, non abbastanza forti da sconfiggere il talento degli slavi e l’ardore patriottico degli ellenici. L’8 agosto sono in programma le due semifinali, con la Russia, trascinata da Vasili Karasev, che infrange definitivamente le speranze americane di confermarsi campioni del mondo, 64-62, e Yugoslavia e Grecia che a loro volta librano un match destinato a rimanere nell’almanacco delle sfide epiche della storia della pallacanestro.

La Athens Olympic Indoor Hall di Marousi, cittadella alle porte di Atene resa celebre da Henri Miller con il diario di viaggio “il colosso di Marousi“, è colma all’inverosimile e rigurgita passione nazionale quando le due squadre scendono in campo per l’ennesima rivincita di quelle che furono la memorabile semifinale degli Europei del 1987 che santificò il genio di Nikos Galis e la finale di due anni dopo risolta nel nome del “Mozart dei canestri“, al secolo Drazen Petrovic, e che conobbero già altri due atti con le semifinali continentali del 1995 (proprio a Marousi, con Danilovic sugli scudi con 19 punti) e del 1997 (a Barcellona, con Bodiroga migliore in campo con 22 reti), entrambe favorevoli agli slavi. Ed è un’altra pagina di grande basket che viene scritta dai protagonisti, su cui si erge un Bodiroga senza precedenti.

Il 25enne serbo, che nelle due ultime stagioni ha deliziato il pubblico di Madrid e che dopo l’estate iridata volerà proprio in Grecia, assoldato dal Panathinaikos con cui vincerà due edizioni di Eurolega, pennella una prestazione sublime, mettendo a referto 31 punti frutto di 9/13 al tiro da due e 13/16 dalla lunetta, a cui aggiungere 5 rimbalzi e 4 assist. Ben assistito da Zeljko Paspalj, a sua volta autore di una doppia doppia con 20 punti e 13 rimbalzi, Bodiroga trascina la Yugoslavia ad una sofferta vittoria al tempo supplementare, 78-73 nonostante la Grecia possa vantare un Nikolaos Oikonomou sontuoso autore di 25 punti, completando poi l’opera ventiquattro ore dopo quando, in una finale altrettanto lottata punto a punto con la Russia, andrà a cogliere il titolo mondiale, 64-62, suggellando una prestazione meno scintillante ma sufficientemente concreta con 11 punti 5 rimbalzi e 2 assist. Trionfo iridato che l’ala serba vedrà sublimato dall’elezione a MVP della rassegna, perché se ad Atene, in quell’estate del 1998, “il colosso di Marousi” ha assunto sembianze umane, quelle avevano il volto cestistico di Dejan Bodiroga.

JOHN WATSON, SECONDA GUIDA CON LICENZA DI VINCERE

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John Watson con la Penske – da pinterest.com

articolo tratto da Cavalieri del rischio

Nato a Belfast il 4  maggio 1946, John Watson iniziò la propria carriera in Formula 1 nel 1972 correndo la World Championship Victory Race a Brands Hatch, gara fuori campionato, con una March del team Goldie Hexagon, mentre il debutto ufficiale avvenne l’anno successivo quando corse per i gran premi di Inghilterra e Stati Uniti con una Brabham, entrambi conclusi con un ritiro.

Sempre con una Brabham, attraverso il team John Goldie with Exagon Racing, corse anche nel 1974: dopo un inizio deludente colse il primo punto a Montecarlo, giungendo sesto nella gara vinta da Peterson, mentre nel finale di stagione ottenne un quarto posto in Austria e un quinto negli Stati Uniti, risultati che non gli permisero di ottenere contatti importanti, tanto che nel 1975 disputò il Mondiale con diverse vetture, senza mai arrivare a punti, con un ottavo posto sul Circuito del Montjuïc, a Barcellona come miglior prestazione.

L’ultima prova stagionale la corse con la Penske, che lo confermò per il 1976, e Watson ripagò la fiducia con una stagione densa di soddisfazioni: arrivò infatti la prima vittoria in carriera (nonchè l’unica in Formula 1 per il team americano) precisamente all’Osterreichring dopo aver conquistato la prima fila con il secondo tempo alle spalle di James Hunt, in una gara caratterizzata tra l’altro dall’assenza della Ferrari, in polemica con la federazione per aver riammesso Hunt in classifica nel Gp di Spagna; per il britannico nel corso di quell’anno giunsero anche due piazzamenti sul terzo gradino del podio in Inghilterra e Germania, con un settimo posto in classifica generale con 20 punti.

Dopo il ritiro della Penske, intenzionata a concentrarsi sulla Cart, Watson passò alla Brabham con la quale, dopo una anno deludente con un secondo posto a Digione al termine di un duello serrato con Mario Andretti come unica soddisfazione, nel 1978 grazie ad una vettura decisamente performante si piazzò con regolarità salendo anche per tre volte sul podio, in Sudafrica, Inghilterra e Italia,  dove fu secondo dietro a Niki Lauda nel giorno dell’incidente mortale di Ronnie Peterson, chiudendo il mondiale al sesto posto, senza troppo sfigurare nei confronti dell’indiscusso leader del team, lo stesso Lauda.

Dal 1979 Watson corse per la Mclaren, al termine di un periodo di crisi per il team: al debutto fu subito a podio con il terzo posto in Argentina mentre nel corso della stagione, dopo una prima parte opaca e sfortunata, lottò regolarmente per la zona punti, sommandone infine 15; meno fortunata fu invece la stagione successiva con due soli piazzamenti a punti e il dispiacere della mancata qualificazione a Montecarlo.

La riorganizzazione Mclaren era comunque in atto e il britannico ne fu protagonista nel 1981, riportando il team alla vittoria dopo 4 anni trionfando a Silverstone in un finale di stagione in crescendo, mentre nel 1982 lottò addirittura per il titolo, inserendosi nella lotta con Rosberg e Prost in seguito ai fatti tragici che misero le Ferrari fuori dai giochi: in testa dopo il gran premio del Canada con 10 punti di vantaggio su Pironi e forte di due belle vittorie a Zolder e Detroit, incappò in una serie di gare sfortunate che lo tennero lontano dai punti per ben sei gran premi, tanto che poi il quarto posto a Monza e il secondo a Las Vegas battuto da Michele Alboreto servirono solo per raggiungere l’infortunato Pironi a quota 39 punti mentre Rosberg, con una sola vittoria ma molto regolare, si accontentò di un quinto posto nell’ultimo Gp per aggiudicarsi il suo unico titolo mondiale.

Nel 1983 la Mclaren, in attesa del turbo Tag-Porsche che arrivò durante la stagione, soffrì la concorrenza, Watson si aggiudicò comunque la gara a Long Beach stabilendo il record per la partenza più arretrata per un vincitore di un gran premio, arrivando primo dopo essere scattato con il 22esimo tempo (Lauda arrivò alle sue spalle con partenza dalla 23esima posizione). Nel resto della stagione fu regolarmente davanti ma, nonostante per il secondo anno consecutivo avesse chiuso in classifica davanti a Lauda, la Mclaren gli preferì Prost, e Watson, seconda guida per eccellenza nel corso di una comunque buona carriera in formula 1, terminò l’attività agonistica con un ultimo gran premio disputato a Brands Hutch nel 1985 in sostituzione proprio di Lauda, terminando la gara al settimo posto dopo essere partito in 11esima fila.

ANDREA MEAD LAWRENCE, LA PRIMA STELLA OLIMPICA DELLO SCI AMERICANO

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Andrea Mead Lawrance nel gigante alle Olimpiadi del 1952 – da nytimes.com

articolo di Nicola Pucci

Abbiamo avuto modo più volte di ricordare che lo sci alpino fu l’ultimo, tra gli sport invernali, a venir ammesso al consesso olimpico, a far data 1936 quando a Garmisch si disputò la sola gara di combinata. Charles Jetraw, pattinatore che nel 1924 a Chamonix nei 500 metri non solo fu il primo americano ma addirittura il primo atleta della storia a cinque cerchi a mettersi al collo una medaglia d’oro, Jennison Heaton, che fu campione nello skeleton a St.Moritz 1928, gli altri pattinatori Jack Shea e Irving Jaffee, così come il bob, che trionfarono nell’edizione casalinga di Lake Placid del 1932, diedero lustro olimpico alla bandiera statunitense prima che Gretchen Fraser vincesse lo slalom femminile a St.Moritz nel 1948 diventando la prima sciatrice alpina a salire sul gradino più alto del podio in casa Usa. Ma ben prima di Phil Mahre, Bill Johnson e Debbie Armstrong che dominarono a Sarajevo nel 1984, per non parlare di Diane Roffe e Tommy Moe che piazzarono il copaccio a Lillehammer nel 1994, fino ad arrivare in tempi recenti a Picabo Street, Bode Miller, Ted Ligety, Julia Mancuso, Lindsey Vonn e Mikaela Shiffrin che a turno afferrarono la gloria, un’altra ragazza si prese la scena diventando la prima stella abbacinante dello sci alpino statunitense. Signori, Andrea Mead, poi sposata Lawrence, che nel 1952 ad Oslo fece doppietta battendo la concorrenza in slalom e gigante.

Andrea Mead nasce il 19 aprile 1932 a Rutland, nel Vermont, e che debba essere destinata a calzare gli sci, e magari diventare una campionessa, è ovvio fin dalla nascita, se è vero che i genitori, Bradford e Janet Mead, gestiscono a Pico Peak una stazione sciistica che nel 1941, pioniera negli Stati Uniti, installa il primo impianto di risalita del Nordamerica. La piccola Andrea ci sa fare, ed è evidente a chi ha la fortuna di vederla esercitarsi sugli sci, ed inevitabilmente già poco più che 15enne, dopo esser giunta terza nel Trofeo dell’Arlberg Kandahar, viene aggregata alla squadra americana che nel 1948 prende parte ai primi Giochi del Secondo dopoguerra, che hanno luogo a St.Moritz. La Mead viene schierata sia in discesa, dove chiude al 35esimo posto, sia in slalom, piazzandosi in ottava posizione, per infine occupare la 21esima posizione in combinata.

Negli anni a seguire la ragazza americana comincia a mietere successi in appuntamenti prestigiosi, come ad esempio la tripletta discesa/slalom/gigante alla Coppa Harriman del 1950, anno in cui partecipa anche all’edizione dei Mondiali di Aspen che la vedono sesta in slalom, nona in gigante e  dodicesima in discesa libera, per poi dodici mesi dopo bissare il tris di vittorie al Trofeo dell’Hahnenkamm a Kitzbuhel. A cavallo tra il 1950 ed il 1951 la Mead gareggia a sedici riprese sui tracciati europei, collezionando ben dieci successi e quattro secondi posti, tanto che quando nel 1952 rinnova l’appuntamento con le Olimpiadi, ad Oslo, è tutt’altro che una sconosciuta e gli addetti ai lavori l’attendono tra le protagoniste più competitive.

Occorre dire, neppure troppo ai margini, che nel frattempo Andrea è convolata a nozze con il collega David Lawrence, acquisendone il cognome con cui si schiera al via delle tre gare olimpiche in programma. Si comincia il 14 febbraio, giorno di San Valentino, con il gigante che viene disputato per la prima volta in sede olimpica ed ha come teatro la pista di Norefjell. Favorite d’obbligo della gara sono l’austriaca Dagmar Rom, campionessa del mondo in carica, e la sua delfina di quel giorno, l’altra asburgica Trude Jochum-Beiser. Ma tra le 45 ragazze al via, lungo un tracciato di 1740 metri che obbliga le atlete a schivare i tranelli posti tra le 59 porte su di un dislivello di 335 metri, la Mead Lawrence, che scende a valle con il pettorale numero 4, è di una spanna superiore alle avversarie, e con il tempo di 2’06″8 è davanti alla Rom, che commette errori fatali che la penalizzano pesantemente al traguardo tanto da chiudere fermando i cronometri a 2’09″0. Sul terzo gradino del podio sale la tedesca Mirl Buchner, 2’10″0, mentre l’azzurra Celina Seghi è settima e la Beiser, ancor più in difficoltà della Rom, rotola nelle retrovie in undicesima posizione.

Tre giorni dopo, 17 febbraio, tocca alla discesa libera, e se la Beiser, così come la Buchner, si prendono la rivincita salendo sui primi due gradini del podio con l’eccellente Giuliana Chenal-Minuzzo medaglia di bronzo, la Mead Lawrence si vede costretta ad incassare una cocente delusione, relegata in un’anonima 17esima posizione con un ritardo di ben 8″3 che la dicono lunga sulle difficoltà incontrate dalla pur giovanissima americana nel prender confidenza con la velocità del tracciato di Norefjell.

Ma Andrea ha carattere da  vendere, così come nel suo caso la classe non è davvero acqua, e per riscattarsi attende la disciplina a lei più congeniale, lo slalom, che il 20 febbraio chiude il programma dello sci alpino. Si scende sulla Rodkleiva, ed ancora una volta l’avversaria da battere è la Rom, che ad Aspen nel 1950 fece suo il titolo mondiale. Ma se l’austriaca deraglia subito ed esce mestamente di scena, non sembra andar molto meglio alla Mead Lawrence che nel corso della prima manche cade, si rialza e riesce a tagliare il traguardo, neppure troppo distante dal podio se è vero che è quarta in 1’07″2, ad 1″2 dalla tedesca Ossi Reichert provvisoriamente al comando e ad un soffio da Celina Seghi e dalla svizzera Madeleine Chamot-Berthod che gli terminano davanti. Si decide tutto nella seconda manche e qui, senza troppi calcoli e con niente da perdere, la campionessa americana dimostra di essere la migliore. La serpentina della Mead Lawrence è sicura, non conosce incertezza, le porte sembrano farsi da parte per non intralciare una sciata veloce e redditizia che infine vede Andrea chiudere in 1’03″4 per un complessivo 2’10″6 che le valgono la seconda medaglia d’oro dei Giochi. Già, perché la Reichert le rende due secondi netti, scivolando in seconda posizione con un ritardo di 0″8, quanto basta per celebrare l’americana quale nuova campionessa di riferimento del Circo Bianco.

Andrea Mead Lawrence sarà in gara anche quattro anni dopo a Cortina, poche settimane dopo la maternità, quando un solo decimo di differenza le impedirà di cogliere la medaglia di bronzo in un gigante che vedrà proprio la vittoria della Reichert. Ma non importa, chiedete a Vonn e Shiffrin chi sia stata la prima grande stella dello sci alpino americano, e vedrete che vi risponderanno in coro. Il nome, quello, lo sappiamo già.